In una maniera affatto peculiare alla fine il dibattito sui 150 anni dell’Unità pare stia decollando, e il paradossale merito sembra da attribuire, alla resa dei conti, alla rozzezza tranchant della Lega che per prima, or sono vent’anni diede fuoco alle polveri, e della quale si può ben dire, in questo che appare un mesto crepuscolo, che stia vincendo la sua partita culturale.
Così, dal basso, sentiamo fiorire una serie di rivendicazioni un po’ querimoniose, come quelle che mariti e mogli sogliono sbattersi in faccia nei tribunali quando redigono davanti a un giudice il mesto inventario del loro tempo insieme: e tu, che hai la ventura di assistere uno dei due, un po’ attonito a chiederti se davvero tutto possa ridursi al ragionieristico calcolo di euro, ore e regali che i fu felici sposini difendono come ultima trincea di una a quel punto molto presunta dignità.
Così, alla stessa maniera, da Nord a Sud del Belpaese, è tutto un fiorire di popolani schiumanti rabbia che rivendicano le loro tasse, i loro accenti, i loro vessilli, le loro microstorie in nome delle quali ciascuno ti racconta un’altra Storia: Garibaldi? Un criminale di guerra da tribunale dell’Aja, a tempo perso ladro di bestiame; Mazzini? Un brigatista ante litteram; Mameli? Un ventenne naif, con poche idee molto confuse e zero talento di qualsiasi tipo; a non dire poi di quel Verdi cultore del dio Po (e mi si perdonerà la minuscola).
Ora, non che nessuno rimpianga l’agiografia un po’ pallosa che caratterizzava i risorgimenti da programmi ministeriali, con Garibaldi ossequioso a Teano, né si può negare la sua importanza ad una ricerca storica più approfondita che dia il giusto conto delle occasioni fallite e delle speranze scippate (con le quali, per inciso, si potrebbe costruire comunque una storia parallela del mondo), quello che se mai disturba è il tono da rissa di cortile che è calato sul tutto.
Il web e la televisione, ottimo termometro della temperatura culturale del momento offrono ampi stralci di questo stato di cose. Non più di un mese fa, una puntata di Presa Diretta di Riccardo Iacona si incaricò di dare testimonianza del comune sentire dei leghismi di Nord e Sud Italia: ne uscì un ritratto agghiacciante di guerra tra poveri, tutti parimenti persuasi di aver subito un furto dal proprio vicino, un ringhiare bavoso privo di qualunque cognizione dell’essere comunità.
Parimenti una passeggiata sul web, tra i commenti ai “Terroni” di Pino Aprile restituisce una foto più o meno analoga del “dibattito culturale”, e così, a fronte di meridionali che rivendicano l’arcadia di Franceschiello, ecco contrapporsi settentrionali lombrosiani.
Senza pretendere di esercitare l’arte aruspicina da queste viscere, che qualcuno potrebbe sospettare adulterate, rimane il fatto innegabile che l’aria si sia fatta pesante – quasi che le discariche della fu Campania felix comincino a spargere i loro miasmi sempre più a largo raggio – e che un rancore, comunque anche in passato sotteso, stia iniziando ad avvelenare in profondità i rapporti delle due parti di un paese che dal suo impoverimento fa nascere una profonda paura e nel suo bruciare le bandiere sempre più sembra sottintendere un bruciare i ponti.
Al netto di tutto l’autentico problema appare sempre più l’impoverimento culturale del dibattito, la semplificazione della complessità ed il disprezzo per qualunque forma di cultura che fanno si che qualunque slogan possa diventare Verità, col rischio che alla fine della festa la festeggiata si ritrovi, come in quei rave della Roma bene che andava di moda qualche anno fa raccontare sui giornali, con la casa saccheggiata, la torta sparsa sulle tende e la piscia abbondantemente fuori dalla tazza e soprattutto senza più niente da festeggiare.