Lo sguardo è quello di uno che sa il fatto suo. È simpatico e diretto, Emanuele Ferragina, la sua stanza ad Oxford è raccolta e piena di libri come quella di qualsiasi studente. Ma lui, studente non lo è più. A 27 anni, dopo Torino e esperienze a Science Po Bordeaux e l’ École de Commerce di Parigi (“Bella la Francia, ma certe volte hai l’impressione che sia culturalmente un po’ troppo centrata su se stessa”) arriva a Oxford. Oggi è il solo italiano a far parte di uno dei 14 gruppi di ricerca del Regno Unito, che produrrà un report basato sulla più grande indagine statistica mai condotta nelle scienze sociali. Bravo certo, lo dice il suo curriculum pieno di pubblicazione su prestigiose riviste internazionali. E allora perché ce lo siamo lasciati scappare?
“In Italia a 27 anni non avrei mai avuto l’autonomia e la possibilità di fare ricerca a questo livello”, riflette. Qual è il motivo? Semplice, mancano le strutture e gli strumenti. E i nostri ricercatori migliori se ne vanno via, senza neppure troppo rimpianto se non quello di aver lasciato amici, parenti o climi più temperati rispetto ai rigori invernali del Nord Europa. Dove, perfino a prescindere dalla questione se l’università funzioni o no, la chiave del successo è una sola: ai giovani come lui, un professore dà il massimo della fiducia.
“La mia esperienza con il mondo accademico è stata meno drammatica di altre storie che ho letto in passato sui quotidiani italiani. Ma non per questo meno deprimente. Il professore con cui mi ero laureato a Torino mi disse chiaramente che per me sarebbe stato meglio fare un dottorato all’estero. Mi diede un buon consiglio, non fu per mandarmi via”. Solo che Emanuele, una volta fuori, non è più tornato. Né al momento ha intenzione di farlo.
“Sono in un team con il mio professore, Robert Walker e un altro ricercatore, Mark Tomlinson. Con loro siamo alla pari. Figurati che quando sono venuti degli accademici italiani la cosa di cui si sono meravigliati di più è stata proprio questa”, aggiunge sorridendo. Segno di una mentalità totalmente diversa, sembra di capire.
Con orgoglio Emanuele può dire di avere una bella responsabilità nel condurre una ricerca basata su un progetto che farà parlare di se nei prossimi anni, Understanding Society. “La più grande indagine mai realizzata su cittadini di un singolo paese. 100.000 interviste, che possono dar conto in modo esauriente di tutte la complessità di questo paese, minoranze etniche incluse”. Costituirà lo strumento privilegiato con cui i ricercatori britannici potranno monitorare l’evoluzione della società. L’indagine è finanziata e coordinata da enti governativi e lo studio del team di Emanuele è supportato dalla fondazione Joseph Rowntree Foundation). Il primo rapporto che sfrutterà questa enorme mole di dati dovrebbe vedere la luce nel Febbraio del 2011.
Lo scopo dello studio di Emanuele è la comprensione delle disuguaglianze sociali. È qui che viene fuori la sua passione, di politologo, che adesso usa le risorse interdisciplinari della statistica e della sociologia. “Ci occupiamo di analizzare il livello di partecipazione dei cittadini inglesi alla vita politica e sociale, a seconda del loro reddito, genere ed età, etnia. Quello che vogliamo verificare è se esiste una soglia economica al di sotto della quale la partecipazione collassa. Se l’ipotesi si dimostrasse vera, l’impatto sul policy making si rivelerebbe fortissimo. Dimostrerebbe su base sperimentale che portare i cittadini al di sopra di un certo livello di reddito accrescerebbe il loro livello di partecipazione”.
Bella la sua indagine, certo. “Ma perché, si chiede ancora Emanuele, ricerche importanti come questa non si potrebbero fare anche sull’Italia? E perché non in un ateneo italiano?”. Lui che si è formato a Torino, poi a Parigi e a Oxford. Studiare la società per stimolare il cambiamento. Niente di male andare all’estero, anzi. Quello che non va è che per Emanuele Ferragina, come per tantissimi altri, si tratta di un percorso quasi sempre a senso unico.