Si fa sempre un gran parlare e si coniano slogan roboanti per promuovere le Grandi Opere.

Infrastrutture gigantesche, Ponti, Linee ad Alta Velocità, Autostrade, Raccordi, Tunnel, fino ad arrivare addirittura ad evocazioni bibliche come il Mose di Venezia.

Servono a modernizzare il paese! Servono a rilanciare l’economia! Servono a porre rimedio alla crisi che attanaglia l’edilizia! Servono a creare nuovi posti di lavoro! Servono alla competitività! Servono alla crescita! Servono a connetterci all’Europa! Insomma, servono!

Questo menù di Grandi Opere, è spesso accompagnato e fa da contorno a Grandi Eventi: esposizioni universali, mondiali di calcio, giochi olimpici, centenari e anniversari. Insomma, il mito della grandezza, l’ambizione di fare le cose alla grande, è sempre presente. E’ una sorta di colonna sonora del vigente modello di sviluppo, che divora voracemente le risorse finite del pianeta, basato sull’assioma assurdo della crescita infinita. Un modello, detto per inciso, che sta portando non solo il nostro paese, ma l’intero pianeta verso il disastro (economico, sociale, morale ed ambientale).

La propaganda berlusconiana (propaganda, perché di fatti, se ne sono visti finora ben pochi) del fare ha prodotto una sorta di ubriacatura mediatico-politica che ha coinvolto, purtroppo, tutti.

Infatti, se Bersani fosse chiamato alla lavagna di ciliegio di Bruno Vespa, traccerebbe sulla cartina dello Stivale le stesse frecce di Berlusconi. L’unica differenza sarebbe forse l’utilizzo di un pennarello rosso anziché blu e l’utilizzo rassicurante di un aggettivo ormai inflazionato: sostenibile.

Un’ubriacatura che spesso può provocare anche cadute nel ridicolo. Come il fatto che in Italia le inaugurazioni non si fanno solo ad opere realizzate, ma alla posa della prime pietre.

Un’ubriacatura che comunque, al di là di come la si pensi, non ha prodotto nessun beneficio reale sull’economia.

Infatti, le grandi opere, nonostante i miliardi di euro stanziati a più riprese dal CIPE (che in verità sembrano sempre gli stessi), non hanno creato che qualche posto di lavoro per qualche progettista di grido.

Senza entrare nel merito circa l’opportunità o meno di questi grandi investimenti, è davvero considerato così estremista proporre un’alternativa concreta che, invece di basarsi su suggestioni e miti senza limiti, punti sul recupero del patrimonio esistente e sulla cura del dissesto idrogeologico?

E’ davvero pericolosa sovversione proporre invece di un breve elenco di grandi e costosissime opere, un lungo elenco di piccole opere di buon senso, che potrebbero veramente creare molti posti di lavoro e nel contempo curare e rilanciare il nostro paese?

Un elenco di centinaia di centri storici da ricostruire e ripopolare, perché abbandonati a causa della migrazione di cittadini in scialbe periferie; di numerosi paesaggi perduti da recuperare all’antica bellezza, perché deturpati da ecomostri e abusivismo di ogni risma; di migliaia di km di piste ciclabili che potrebbero rendere meno urgente e indispensabile l’utilizzo dell’automobile; di centinaia di km di rete idrica o fognaria da sistemare o realizzare ex novo; di migliaia di interventi di messa in sicurezza nelle migliaia di comuni a rischio idrogeologico.

Sono estremisti e parolai, come spesso vengono tacciati, coloro che stanno cercando di percorrere una strada diversa, come i promotori della Campagna Nazionale Stop al Consumo di Territorio, oppure lo sono quelli che si ostinano a cavalcare questo modello di sviluppo che spinto da un’insaziabile voracità banchetta a base di territorio, risorse idriche e agroalimentari, a discapito delle generazioni future?

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