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Elezioni Usa, l’ultimo attacco dei repubblicani: “Adesso dobbiamo riprenderci l’America”

Nell'ultima domenica prima delle elezioni di midterm prosegue la campagna degli oppositori di Barack Obama. Le manifestazioni si sono svolte in Virginia

Barack Obama, “campione di un governo federale intrusivo, spendaccione, che ha stracciato la Costituzione e che minaccia il futuro degli Stati Uniti”. Sbandierando questo tema, i repubblicani si sono scagliati contro Barack Obama nell’ultima domenica prima delle elezioni. Hanno organizzato rally, bussato alle porte degli elettori, organizzato campagne telefoniche. Il loro slogan è stato: “Riprendiamoci l’America”. E con ogni probabilità un pezzo d’America, la Camera degli Stati Uniti, se la riprenderanno.

A Fairfax, Virginia, si è svolto uno dei tanti rally. In questo angolo di Sud (la contea di Fairfax è l’estremità settentrionale del Sud, ma è comunque Sud, e qui la gente ama con particolare forza la propria libertà, le proprie armi e il proprio Dio) è arrivato Bob McDonnell, governatore dello Stato, idolo dei repubblicani di tutta America per la perfetta combinazione di liberismo e conservatorismo sociale (pro-armi, pro-business, contro l’aborto, per la trivellazione delle coste della Virginia). E’ arrivato l’Attorney General dello Stato, Jim Cuccinelli, diventato famoso per aver escluso gay e lesbiche dalle leggi anti-discriminazione. E sono arrivati piccoli e grandi notabili locali, tutti a sostenere i candidati repubblicani della zona e a bastonare quelli democratici, accusati di essere “politici di Boston” (da queste parti “Boston” viene usato per definire qualcosa di vacuo, elitario e irrimediabilmente anti-americano).

“Non riesco a pensare a nulla di più spaventoso di altri due anni di Barack Obama e Nancy Pelosi”, urla McDonnell, e la folla coglie il riferimento alla festa di Halloween, che cade proprio il 31 ottobre, e ride. L’indignazione di questa gente per la politica economica di Obama è totale. “E’ un socialista – dice una signora – Obama idolatra il governo e non si rende conto che gli Stati Uniti sono una repubblica per il popolo”. Un’altra lamenta i lacci con cui il presidente ha strozzato l’economia americana: “Tutte quelle nuove regole su sanità, agenzia del consumatore, limiti alle emissioni inquinanti. E’ ovvio che gli imprenditori non assumono più”. E Ronald Wilcox, dei locali “Taxpayer Revolt”, spiega che “secondo la Costituzione, il governo federale ha competenza su difesa, certi diritti individuali, commercio, ma non sanità, lavoro, ambiente”.

E’ inutile far notare ai presenti che l’inabissarsi dell’economia americana precede la presidenza di Barack Obama (George Bush ha lasciato alla Casa Bianca un deficit di 1.300 miliardi di dollari; è con la presidenza Bush che la spesa per il Medicare raggiunge i massimi storici, ed è ancora Bush, non Obama, che concepisce il tanto esecrato TARP, il piano di salvataggio delle banche). E’ inutile perché questa gente non ha altro obiettivo di odio e disprezzo che il suo presidente, e l’odio e il disprezzo cancellano storia e ragioni in un’unica lunga invettiva (“Obama è arrogante e incompetente. I democratici sono disperati per averlo eletto”, spiega l’autista del pullman elettorale di Patrick Murray, uno dei candidati. E dalla foga con cui parla si capisce che Obama non sarà davvero mai il presidente di questa America bianca del Sud).

“Non vado a Washington per conservare lo statu quo. Ci vado per rivoluzionare il sistema”, urla a un certo punto alla folla Keith Fimian, un altro candidato, e l’affermazione rende piuttosto bene il carattere radicale di molti nuovi repubblicani (un vecchio conservatore avrebbe difficilmente voluto “rivoluzionare il sistema”). Poco lontano un’associata del locale gruppo di donne repubblicane, Bunny Monroe, spiega con orgoglio alle compagne che “è Dio, non il governo, a darci la nostra libertà. E noi vogliamo il governo fuori dalle nostre vite”. L’esaltazione con cui l’ultrasettantenne Bunny espone il concetto segnala la sicurezza di questa gente a 48 ore dalle elezioni, ma rivela anche non sono soltanto crisi e frustrazione per l’economia a favorire il ritorno dei repubblicani. A favorirli è l’antica diffidenza per il governo centrale, la voglia di tenerlo fuori dalle proprie vite, tema portante dello spirito americano che i repubblicani oggi sanno interpretare e sfruttare contro Barack Obama.

di Roberto Festa

Una collaborazione Il Fatto e Dust