L’unico commento di Umberto Bossi alla penosa/pruriginosa vicenda Ruby è stato: “Berlusconi non doveva farla lui quella telefonata, ma chiamare me o Maroni”. Sottinteso: “perché era meglio che la facessimo noi”.
Ecco – dunque – chiarite le radici culturali del nostro personale politico di governo: le maschere della Commedia dell’Arte, con una importante presenza bergamasca (che possiamo far risalire a prima del Ruzante). Infatti la riflessione bossiana riporta a nuovo l’antica tradizione orobica del “Gioppino, scarpe grosse e cervello fino”; il contadino gozzuto ma molto furbo e – guarda caso – vestito sempre di verde: quasi un segno premonitore dell’avvento leghista. Personaggio, questo, che discende da quello ancora più remoto del Bertoldo, l’altrettanto astuto villico che pure lui si trascina appresso un figlio non proprio sveglio (che si chiama Bertoldino, non Trota).
Fatto sta che Gioppino-Bossi è subito pronto a giungere in soccorso di Berlusconi-Ganassa, il gretto e gaudente predecessore di Arlecchino; magari con il supporto di Brighella-Maroni, altra maschera bergamasca che personifica al meglio la tipologia del servo furbo e opportunista. Alla bisogna potrebbero coinvolgere pure il ministro Roberto Calderoli, che sarebbe perfetto nella parte del grasso e goffo Tartaglia se non ci fosse un problema insormontabile: quello dell’origine terrona (campana) del simpatico personaggio.
Quindi una faccenda squisitamente lumbard, che conferma la sopravvivenza della mentalità rurale/rustica in questa Italia che si vorrebbe postmoderna. Ma che loro riducono tranquillamente (e per la nostra soddisfatta ammirazione) alle dimensioni del foro boario in quel di Val Seriana.
Ma il ritorno delle maschere sulla scena pubblica non si limita a quest’angolo della Padania. A Venezia l’avaro e brontolone dottor Pantalone rinasce a nuova vita nella taglia micro dell’ancora più inacidito Renato Brunetta; mentre il torinese Mario Borghezio (El Bughéz), abbandonati i mehir alla Obelix, ritrova le proprie radici più profonde immedesimandosi nell’astigiano Gianduia; anche perché affratellato da una marcata propensione alle libagioni: Gioan d’la douja era chiamato così in quanto gran bevitore e frequentatore di locande (douja, in piemontese, significa boccale). Probabilmente è proprio sotto effetto etilico che il mastodontico Vej Piemunt, spedito in Europa per tenere alto il buon nome del Nord, ha concepito le sue più originali e innovative ricette in materia di accoglienza (tipo quella di irrorare di pipì suina i terreni destinati all’edificazione di luoghi di culto per gli islamici): standing ovation a Strasburgo.
Proseguendo a Ovest e scendendo verso il mare troviamo Claudio Scajola, il primo “uomo di mano” della compagine berlusconiana; in cui rivivono chiari umori liguri (anche se lui è originario di Latina). Dunque Scajola come Capitan Rodomonte Spaventa di Val d’Inferno, la figura del minaccioso armigero a cui già lo indirizzava il suo più antico datore di lavoro – Paolo Emilio Taviani – quando ebbe a definirlo “il killer perfetto”.
Altro killer perfetto potrebbe essere considerato uno dei tre moschettieri coordinatori di Casa della Libertà, il fiorentino Denis Verdini; che – però – dal momento in cui ha fatto finanza non può più essere accostato al povero Stenterello, rimasto invece in tragica bolletta: ennesimo miracolo della Commedia dell’Arte fattasi politica.
Roma non può mancare. Qui si contendono la parte di Rugantino due veri colossi: Daniele Capezzone e Maurizio Gasparri. Entrambi rinomati voltagabbana ma con una lieve prevalenza per il primo, stante la celebre battuta rugantiniana «quelli me ne hanno dato ma io gliene ho dette».
Neppure difettano apporti bipartisan alla nostra galleria: a suo tempo il governatore di Regione Campania Antonio Bassolino è stato un convincente Pulcinella, mentre ora il leader del Partito Democratico – Pierluigi Bersani – si confronta con il classico modello emiliano del saccente e ciarliero dottor Balanzone.
Insomma, politica tutta da ridere? Sarebbe davvero così se l’occupazione della scena pubblica da parte di questi mascheroni non comportasse una situazione che dalla farsa ormai inclina decisamente verso la tragedia. Una regressione verso il ridicolo che ormai è diventata la percezione dell’Italia nel mondo. I francesi hanno coniato il neologismo Burlesquoni (e “burlesque” significa ridicolo, burlesco, ma anche spettacolo scollacciato). Anche se – però – il nostro premier ce la mette davvero tutta per aggiornare l’immagine, riportando a nuovo le tradizionali giullarate. Come alla cena d’addio di George Bush jr. nello State Dinind Room di Washington. Quando Berlusca si lancia per abbracciare il presidente americano, nella foga travolge il podio, inciampa nel filo del microfono e stacca il leggio che precipita sul cranio di Rudolph Giuliano. Puro “slapstick” (i film di torte in faccia e cadute esilaranti alla Ridolini). Un’ottima pubblicità per la compagnia dei comici nostrani.