Si chiude una campagna elettorale difficile per i democratici che secondo i sondaggi perderanno la maggioranza alla Camera. I repubblicani supportati dal populismo e dalle conseguenze della crisi cavalcano l'onda: "E' un referendum sul presidente"
Quella di quest’anno è stata una campagna elettorale che si è ben presto trasformata in un referendum su Barack Obama. “Questo voto riguarda soltanto lui e la sua maggioranza al Congresso”, ha detto John Boehner, capogruppo repubblicano alla Camera. Con un tasso di disoccupazione vicino al 10% e il cancro dei pignoramenti che si allarga (un proprietario su 86 a Chicago si è visto requisire la casa), i repubblicani hanno avuto buon gioco a mettere sotto processo la Casa Bianca. Obama e i democratici si sono mostrati timidi, sulla difensiva. Nell’ultimo appello elettorale, il presidente ha chiesto di “tornare allo spirito del 2008”. Sarebbe stata più efficace qualche iniziativa concreta (per esempio, bloccare i pignoramenti dopo la scoperta di migliaia di irregolarità da parte delle banche). Ma Obama non ha avuto né la forza, né il coraggio per farlo (come invece fece uno dei suoi modelli, Franklyn D. Roosevelt, quando nel 1935 sponsorizzò il Frazier-Lemke Act che proibiva alle banche di impossessarsi delle fattorie). Il risultato è che lo spirito, e la coalizione, del 2008, sono irrimediabilmente perduti. Donne, giovani, indipendenti, neri, ispanici, classi popolari, quest’anno non guardano ai democratici.
E’ stata anche una campagna che ha visto l’emergere di una classe politica repubblicana fondamentalista, millenarista, misto di anarchismo anti-Stato e conservatorismo sui valori, espressione del Tea Party o che ha trovato nel Tea Party un comodo alleato: gente come le teocratiche Sharron Angle e Christine O’Donnell, che si sentono chiamate da Dio a cancellare la riforma sanitaria di Obama; come Rand Paul, che vorrebbe permettere ai businessman di discriminare sulla base di razza, etnia o sesso; come Joe Miller, per il quale il salario minimo è una “misura socialista”. Con questi nuovi repubblicani, sarà difficile promuovere iniziative legislative bipartisan al Congresso. “Sino ad ora l’atmosfera è stata ostile. Tra un po’sarà ostile alla nitroglicerina”, ha spiegato Ron Bonjean, uno stratega repubblicano.
Ma è stata soprattutto la campagna che ha segnato la saldatura più perfetta tra grande capitale e vecchia nomenclatura repubblicana, tesi a sfruttare gli umori populisti e cattivi d’America. 75 milioni di dollari sono stati fatti affluire nelle casse dei repubblicani dalle grandi banche e multinazionali – Goldman Sachs, Dow Chemical, Chevron Texaco, Aegon, Prudential Financial, Chamber of Commerce. I think-tank più conservatori, il Competitive Enterprise Institute, la Olin Foundation, la Smith Richardson Foundation, la We The People Foundation, hanno gestito la sostanza ideologica di questa virata a destra. In più di un’occasione è parso di rivivere l’attacco al New Deal del mondo degli affari e della grande industria, negli anni Trenta. I finanziamenti a pioggia ai repubblicani, il blocco degli investimenti sono un chiaro segnale che il capitale americano manda ai due anni che restano della presidenza Obama.
Infine, è stata una campagna elettorale che ha di nuovo mostrato la divisione del Paese. Metà America non riconosce questo presidente, come metà America non riconosceva quello precedente. Tra meno di due mesi, a gennaio, si apre una nuova campagna elettorale, quella per le presidenziali 2012. Ci sarà altro tempo per sbranarsi, nuove possibilità di versare centinaia di milioni nella politica, infinite occasioni per bloccare il sistema America in un gioco di veti e interessi particolari. Ma prima viene il risultato di oggi, la prova di quanto a destra vanno gli Stati Uniti.
di Roberto Festa (inviato negli Stati Uniti)
una collaborazione Il Fatto e Dust