Al Festival di Roma oggi arriva il film di Claudio Serughetti, in collaborazione con 'Nessuno tocchi Caino'. La "classifica" delle esecuzioni vede al primo posto la Cina (5.000 condanne), seguita dall’Iran, Iraq e Stati Uniti
Non solo glamour, star e passerelle: sul Festival del film di Roma il 3 novembre piomba la morte. Non quella fasulla del cinema horror ma quella vera dei 5.619 esseri umani giustiziati nel mondo solo nell’ultimo anno. E di quelli che attendono l’esecuzione: come l’iraniana Sakineh, la cui vita è data giornalmente per spacciata, e le centinaia di sconosciuti clamorosamente o silenziosamente condannati alla pena capitale in paesi civili quali gli Stati Uniti o il Giappone.
S’intitola È tuo il mio ultimo respiro? il documentario con il quale Claudio Serughetti, giovane e poliedrico regista (è anche pittore e musicista) invita a riflettere sull’uso dell’omicidio di stato come forma di punizione ritenuta giusta e congrua da 43 paesi dei quali la maggioranza (36) sono retti da dittature o regimi illiberali. Lo fa in collaborazione con Nessuno tocchi Caino (l’organizzazione del partito radicale il cui principale obiettivo è l’attuazione della moratoria universale della pena di morte e, più in generale, la lotta contro la tortura) e attraverso le testimonianze di intellettuali, artisti, religiosi impegnati su questo fronte: da Peter Gabriel a Bernardo Bertolucci, da Marco Bellocchio a Dario Fo ad Adolfo Pérez Esquivel. E poi, autentico pugno nello stomaco, ci sono i filmati e le immagini degli ultimi istanti di vita dei condannati: volti che nella diversità delle etnie si assomigliano tutti, perché identico è il terrore negli occhi di chi sta per essere strappato alla vita.
Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno tocchi Caino, snocciola dati e primati: in testa agli omicidi di stato è la Cina, con circa 5.000 esecuzioni, seguita dall’Iran con 402, l’Iraq con 77, gli Stati Uniti con 52. Ma non si sa nulla del Giappone, paese dove le esecuzioni vengono tenute nascoste. Tanto che Oliviero Toscani, autore di una memorabile campagna pubblicitaria per Benetton che aveva come testimonial proprio i condannati a morte nei penitenziari americani, arriva a “preferire” le pubbliche impiccagioni di piazza in Cina, riprese perfino dai cellulari, al silenzio totale che avvolge quelle in Giappone, coperte anche dalle famiglie dei condannati per le quali avere un parente giustiziato è un’onta insopportabile.
Ci sono altri numeri, però, più consolanti: i paesi che hanno abolito totalmente o parzialmente (cioè con una moratoria) la pena di morte sono ormai 154. E nel paese più “civile” dove ancora si applica la pena capitale, cioè gli Stati Uniti, la maggioranza della popolazione (58 per cento) si dichiara oggi a favore di una moratoria. Un cambiamento di rotta motivato dai molti errori giudiziari che hanno portato alla morte persone innocenti: gli oltre 100 casi documentati finora grazie a nuove tecniche d’indagine scientifiche hanno profondamente scosso l’opinione pubblica americana.
Non tutti gli intervistati sono da sempre abolizionisti. Padre Alex Zanotelli, il missionario comboniano ispiratore e fondatore di tanti movimenti pacifisti, si confessa «convertito» alla battaglia contro la pena di morte. Per molti anni, infatti, ha appoggiato la lotta armata degli africani contro il colonialismo. Fino a che, a metà degli anni Ottanta, «riflettendo bene, connettendo le varie problematiche, soprattutto quelle legate alla fame e alle armi, ho cominciato a rimettere in discussione la lotta armata e sono tornato alle radici cristiane: a Gesù, colui che ha inventato la nonviolenza».
Altri, come Dario Fo, il terrore di essere giustiziato l’hanno provato personalmente: «Durante l’ultima guerra sono stato disertore: se mi prendevano rischiavo la fucilazione» racconta il premio Nobel. «È stato allora che ho imparato il valore della vita. La pena di morte non è giustizia, è solo vendetta».
Fuori dal coro, come sempre, Massimo Fini, critico con la campagna contro la condanna di Sakineh: una campagna, a suo dire, politica contro uno stato e una religione, l’Islam, nel mirino degli Usa. A questo proposito, molto interessanti sono le opinioni di due intervistati di religione musulmana: Ahmad Gianpiero Vincenzo, presidente degli intellettuali musulmani italiani, e Mohsen Melliti, regista di origini tunisine esiliato in Italia e oggi cittadino italiano.
Anche Ahmad Vincenzo critica la campagna contro l’esecuzione di Sakineh, accusata di adulterio e dell’omicidio del marito, sostenendo che si è posto dolosamente l’accento sulla matrice religiosa della condanna, mentre l’Islam non c’entra nulla. Per corroborare la sua tesi Ahmad Vincenzo ricorda che, secondo il Corano, l’adulterio è punito con la morte solo se provato da quattro testimoni oculari, cosa palesemente impossibile. Sakineh, dunque, sarebbe stata condannata per motivi politici, non religiosi. Lo stesso Vincenzo ammette però che per l’Islam l’omicidio e la rapina comportano la pena capitale. E su questo ha buon gioco Mohsen Melliti quando osserva: «Il Corano prevede la pena di morte, ma è un testo scritto nel 640! I tempi sono cambiati e i musulmani devono trovare il coraggio di tenerne conto e andare avanti riformandolo». D’altra parte, come ricorda padre Zanotelli, «nella prima edizione del catechismo italiano c’era ancora la pena di morte. Adesso, nella nuova edizione è stato finalmente tolto. Ci voleva tanto?».