E’ la vittoria che i repubblicani attendevano: ampia e senza ombre (la più ampia, alla Camera, degli ultimi 70 anni). E’ la sconfitta che i democratici temevano. Tanto più bruciante, perché implica un rigetto delle politiche di Barack Obama. I repubblicani assumono il controllo della Camera. La loro maggioranza è ancora più ampia rispetto alle previsioni. I democratici conservano il Senato, ma con un margine molto esiguo. Il trionfo conservatore è reso ancora più clamoroso dalla vittoria in una serie di importanti scontri per la carica di governatore. Ai repubblicani va il governorship di Michigan, Wisconsin, Tennessee, Kansas, Oklahoma.
Non è servita a nulla la mobilitazione democratica delle ultime ore. Con i seggi già chiusi a Est e a Sud, la speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha rivolto un ultimo accorato appello agli elettori dell’Ovest, perché uscissero a votare. La mossa ha probabilmente aiutato senatori come Barbara Boxer della California e Harry Reid del Nevada, che alla fine ce l’hanno fatta. Nell’insieme, l’appello è però servito a poco. Sin dalle prime proiezioni, i repubblicani hanno infatti dimostrato un’inarrestabile progressione, assicurandosi seggi chiave in Florida, Ohio, Virginia. Col passare delle ore la mappa elettorale è apparsa sempre più rossa, più repubblicana. Tanto che, a spoglio ancora in corso, John Boehner, deputato dell’Ohio, è apparso in lacrime a una conferenza stampa a Washington, e ha annunciato che “il popolo ha parlato”. Sarà lui il nuovo speaker della Camera, al posto della Pelosi.
Con un tasso di disoccupazione al 9,6%, e l’umore del Paese che tutti i sondaggi descrivono cupo e arrabbiato, il voto di ieri è apparso soprattutto una reazione a chi ha governato negli ultimi due anni. Quindi, al partito del presidente. Hanno perso i democratici di tutti i tipi e orientamenti: quelli conservatori come Blanche Lincoln, senatrice dell’Arkansas, nemica della sanità pubblica che Obama voleva votare; quelli centristi come Tom Perriello, uno dei più fedeli alleati del presidente, allineato a ogni richiesta della Casa Bianca, punito dagli elettori della Virginia: e infine quelli più a sinistra come Russ Feingold, colonna dei progressisti di tutta America, al Senato dal 1993, battuto in Wisconsin da Ron Johnson, un industriale della plastica senza nessuna esperienza politica, su cui si sono riversati milioni di dollari dai gruppi conservatori.
C’era molta attesa per il risultato dei candidati del Tea Party presenti nelle liste repubblicane. Il movimento anti-tasse e anti-governo centrale ha centrato due ottimi risultati con la vittoria di Marco Rubio in Florida e di Rand Paul in Kentucky (entrambi i candidati all’inizio della campagna sono stati snobbati dai vertici repubblicani, segno del fastidio con cui la nomenclatura conservatrice di Washington ha inizialmente accolto le istanze populiste del movimento). Ma il Tea Party non riesce a far eleggere i suoi due politici simbolo, Christine O’Donnell e Sharron Angle (cocente è soprattutto la sconfitta della Angle in Nevada, contro il vecchio senatore Harry Reid, la faccia più ingessata e ufficiale del partito democratico).
Nella conferenza stampa di Washingon, John Boehner ha detto che il voto segna “il rigetto di Washington, dello Stato sociale e dei politici che non ascoltano il popolo”. Il tono è apparso più prudente che magniloquente. I repubblicani assumono il controllo della Camera con un programma di riduzione del governo centrale e di tagli alle tasse, ma sanno anche che da questo voto viene un segnale di disagio, più che una chiara e articolata visione di quello che gli elettori vogliono. “Vinciamo soprattutto sull’onda della rabbia per i democratici”, ha spiegato lo stratega repubblicano Dan Bartlett.
Abbiamo seguito la notte elettorale a Philadelphia, al quartier generale di Joe Sestak, candidato democratico per il Senato, sconfitto da Pat Toomey, un repubblicano conservatore che ha fatto campagna attaccando “lo sbandamento a sinistra di Obama”. Durante il discorso in cui Sestak ammetteva la sconfitta, i militanti democratici piangevano e fischiavano rumorosamente ad ogni accenno all’avversario repubblicano. Segnali, se ce ne fosse bisogno, del clima di esasperazione e scontro che continua a regnare nella politica americana.
di Roberto Festa, inviato negli Stati Uniti
una collaborazione Il Fatto e Dust