All’esito dell’ultima apparizione di Marchionne in televisione, nella commentatissima intervista di un più che mai curiale Fabio Fazio, non ho potuto fare a meno di interrogarmi sui sentimenti di incredibile avversione che il personaggio pare provocarmi.
Tralascerò le palesi menzogne che un intervistatore appena più incisivo avrebbe facilmente smascherato, e che son state abbondantemente analizzate, per soffermarmi su aspetti residuali che mi sembrano dare rilievo a modalità tipiche dell’attuale fase delle dinamiche impresa/mondo del lavoro.
Intanto, l’attuale capo della FIAT pare affetto dalla classica sindrome del maschio alfa, che trapela non tanto dalle padronali asserzioni in ordine ai rapporti gerarchici che dovrebbero regolare la vita della sua azienda, quanto piuttosto dalle tipiche pisci….e che rilascia qua e là a marcare il territorio: tale appare senza meno l’affermazione, ad apertura di intervista, relativa alle 18 ore giornaliere che il solerte capitalista de noantri dedicherebbe personalmente al lavoro. Si tratta, come chiunque ha potuto constatare nel corso della propria esistenza, di una tipica asserzione che caratterizza le dichiarazioni dei più tra i leader delle categorie “produttive” del paese: e infatti, chi non ha sentito analoga sparata provenire di volta in volta da qualche piccolo imprenditore, cummenda, avvocato o commercialista?
Senza voler mettere in discussione la buona fede di un simile enunciato, non si può però fare a meno di metterne in dubbio l’intelligenza; e infatti, vien da chiedersi a che valga guadagnare qualche milione di euro l’anno se poi ti lasci solo 6 ore al giorno per spenderli, ammesso che tu riesca a fare a meno del dormire?
Ma, a parte ciò, l’affermazione sottintende un concetto lasco di “lavoro” ben differente, ne sono certo, da quello che appartiene, e che si pretende, ad esempio, ad uno qualunque degli operai di Marchionne: l’indottrinato ideal tipo del capitalismo di comando per solito ricomprende nel concetto di lavoro tutta una serie di impegni che il comune mortale tenderebbe piuttosto a far ricadere nel tempo libero, talché una pranzo a “La Pergola” diventa lavoro, e per tale viene pure spacciata una partitina a golf al St. Andrews, tutte attività che, non fosse per la pessima compagnia in cui sono di solito svolte, non parrebbero idonee a provocare collassi nervosi da iperlavoro.
Ma il meglio il nostro lo dà, e lo ha dato, nella sua veste di esegeta del futuro, allorché con piglio deciso è venuto a spiegarci che le rivendicazioni operaie, perbacco, appartengono a un mondo vecchio, inesorabilmente tramontato.
Si tratta di affermazioni rinvenibili in tutta la vulgata berlusconiana e conservatrice del nostro, come di buona parte degli altri paesi occidentali, che danno conto del rovesciamento semantico e molto orwelliano che il termine “progresso” ha subito nell’arco di un secolo e mezzo, e che fanno sovvenire il celebre sketch del Nerone petroliniano, allorché, con aria ispirata, il grande comico in vesti paramussoliniane chiosava “torniamo all’antico, faremo un progresso”: quel che non si capisce bene è per qual motivo un sensibile peggioramento dello stile di lavoro, e, per conseguenza, dello stile di vita tout court, dovrebbe essere percepito come un progresso da chi si trovi a subirlo, quasi che i nuovi padroni non si accontentino più della prospettazione dell’alternativa tra minestra e finestra, ma mirino piuttosto a convincere.
In una commedia hollywoodiana di qualche anno fa una giovane donna litigava col suo compagno in merito alla sua scarsa vena collaborativa nei lavori domestici; nel difendersi il compagno, accalorato, replicava che si, insomma, in segno di buona volontà aveva lavato i piatti e dunque…ma lei imperterrita chiosava “non voglio che tu lavi i piatti, voglio che tu voglia lavare i piatti”. Il filosofo Zizek, nel suo saggio “Leggere Lacan, guida perversa al vivere contemporaneo”, coglie in questo breve scambio un tipico exemplum della classica modalità di manifestazione dell’autoritarismo implicito nella democrazia contemporanea, ed è quanto i Marchionne di tutto il mondo giornalmente si incaricano di dimostrarci, salva la proterva volontà degli operai di non volere ciò che dovrebbero, col loro rifiutare di entrare canticchiando jodel in fabbrica, come i sette nani in miniera.
Ora, non si pretende che Marchionne, oberato come è di lavoro, perda tempo con la lettura di filosofi, per di più comunisti, ma almeno lo sforzo di dedicare un paio d’ore delle sei quotidiane che gli rimangono libere, alla distrazione rappresentata da una buona commedia americana, ci sentiamo di consigliarglielo, gli costerebbe sette euro, ma forse contribuirebbe a distendergli, di tanto in tanto, la faccia in un sorriso.