Politica

Vendola, Pisapia e la Milano di Greppi

Ci sono (rari) momenti nella vita in cui senti di essere al posto giusto al momento giusto, là dove le cose accadono e, forse, cambiano il mondo. Anche solo una piccolissima parte di mondo. Anche solo, poniamo, Milano.

Quella sensazione l’ho provata ieri sera al Teatro Dal Verme, a Milano appunto, dove Giuliano Pisapia, uno dei candidati sindaco della città in corsa per le primarie del 14 novembre, presentava il suo programma.

Che fosse una serata particolare lo si poteva intuire dal fatto che alle sette c’era già una lunga coda all’ingresso (Pisapia non avrebbe parlato prima delle 20,30). Poi dal teatro strapieno un’ora prima dell’inizio della manifestazione. E, ancora, dalle mille e più persone rimaste fuori ad ascoltare il dibattito dal megaschermo.

È evidente che qualcosa sta cambiando a Milano” ha esordito il cerimoniere Gad Lerner guardando, un po’ stupefatto, il foltissimo pubblico: finalmente non più il solito gruppuscolo di reduci non domi ma tanti giovani frammisti a persone di ogni età.

Tutta gente accorsa a dare il suo sostegno a Pisapia, espressione della migliore società civile milanese, ma soprattutto per ascoltare il suo illustre supporter: Nichi Vendola.

Anch’io, che conosco, stimo e sostengo Giuliano Pisapia, ero lì per quello. Per capire se dietro l’eloquio seducente c’era un anima, se oltre all’orecchino c’era davvero qualcosa di nuovo.

Non sono stata delusa. Tutto ciò che si dice dell’arte oratoria di Vendola, della sua vena poetica, della sua capacità d’infiammare la platea è vero. Ma ancora più vero è il miracolo che riesce a operare connettendosi, meglio di un internet veloce, alle persone che ha di fronte: farle sognare.

Da quel palco dove sedeva accanto a un intellettuale ebreo e a un avvocato cattolico, l’uomo che ha conquistato per due volte la Puglia alla sinistra (“anche avendo contro la sinistra“) ha volato alto tenendo l’occhio puntato a terra. “Sono venuto per la prima volta a Milano che avevo dieci anni. Ricordo il batticuore che provai in piazza del Duomo: la grande cattedrale e le luci delle insegne pubblicitarie, la grandezza della tradizione e il fascino della modernità, una città mescolata e in movimento” esordisce.

Ma quella metropoli che incantò Vendola ragazzino non c’è più, è cambiata sotto i nostri occhi quasi senza che ce ne accorgessimo; ci siamo lasciati sfuggire i segni inequivocabili delle infiltrazioni malavitose, abbiamo rimosso la penetrazione della ‘ndrangheta, non abbiamo fatto caso ai fiorai che sbucavano a ogni angolo, autentiche “sentinelle del territorio” ci spiega ora Vendola.

Vendola ci sbatte in faccia quella che è diventata Milano. Una città opaca, sporca, brutta. E cattiva, immemore della sua vocazione all’accoglienza. “Troppe periferie degradate, troppe discariche sociali“. Ci dice che facciamo schifo, e noi applaudiamo. Perché lo sappiano benissimo che è vero. Così come sappiamo di chi sono le responsabilità: un ventennio di destra al potere che ha trasformato il laboratorio politico della sinistra, la culla del riformismo (“quello vero“) nella roccaforte di fascisti e razzisti: “Negli anni Sessanta la paura collettiva era quella della bomba atomica, oggi è quella del Rom sul pianerottolo di casa“.

Vendola ci fa piangere di nostalgia (tutti, anche quelli che non erano nemmeno nati) ricordando la Milano che era: la città di Antonio Greppi, il sindaco della ricostruzione che subito dopo la guerra insieme alle prime case e strade volle che fosse ricostruita la Scala, perché “non c’è libertà dove non c’è cultura“. E ci fa ridere di gusto raccontando le malefatte della sindachessa che da icona para- monacale “si sta secolarizzando in una trasformazione che ricorda quella di Irene Pivetti: da vandeana a conduttrice tv sadomaso“.

Giustamente Gad Lerner si chiede: “Ma se è una città così carogna, Milano voterà Pisapia?“. Voterà un uomo il cui programma ha i suoi punti forti nella legalità, nella lotta alla povertà (materiale, morale e culturale), nell’accoglienza?

Vendola non azzarda pronostici, ma si vede che ci crede. Non solo perché il centro destra e Berlusconi hanno i problemi che sappiamo. Ma perché capisce, qui questa sera ma probabilmente anche altrove in altre sere, che gli italiani hanno voglia di cambiare pagina. Il problema, dice, è se il centro sinistra ce la farà a uscire dalla paralisi, a rinnegare “la vocazione al suicidio che negli ultimi anni l’ha portata a mimetizzarsi per assomigliare sempre di più all’avversario, convinta che fosse quello il modo per batterlo“. Ce la può fare “se non si travestirà da pitbull, perché su quel terreno non si vince. E se riuscirà, in vece, a elaborare un linguaggio proprio, che si discosti quanto più possibile da quello impoverito, regredito, semplificato, eppure grondante sangue, del berlusconismo“. Perché si vince, anche, “con l’eleganza e la ricchezza del linguaggio e del pensiero“.

E giù applausi, applausi, applausi.

Non si parla di Ruby, qui, se non in un dolente accenno alla “dissipazione di umanità“. Non si attende il miracolo di San Gianfranco Fini. Si cita, invece, Giacomo Leopardi de Le Ginestre e il suo invito a “prendersi per mano contro la natura matrigna“. Tutti insieme, insomma, per uscire, non solo a Milano ma in tutta Italia, dall’incubo berlusconiano: “Senza più etichette di sinistra riformista, radicale, antagonista. Solo sinistra, punto“.

E se qualcuno teme che troppa poesia allontani dalla realtà, a riportarci a terra c’è Giuliano Pisapia che citando Greppi, ancora lui, esorta: “Facciamo in fretta, perché i poveri non hanno tempo“. Perché Milano non ha più tempo.