Ieri, come ogni anno attorno al quattro novembre, commemorazione dei caduti delle due guerre. Allora mi è tornata in mente la curiosa storia di un mio compaesano.

Prima sono andato davanti al monumento, per vedere la data di nascita: il monumento ai caduti delle due guerre.

Sulla stele di sinistra ci sono i nomi dei caduti della prima guerra mondiale, su quella di destra i caduti della seconda.

Il nome che mi interessa sta sulla sinistra, il secondo partendo dall’alto; sulla targa c’è scritto: Soldato sopra, Classe 1886 sotto, il nome in mezzo.

L’anno di nascita un po’ mi ha spiazzato, perché immaginavo un soldato molto giovane, morto ancora ragazzo. All’inizio del secolo, invece, trent’anni non erano cos’ pochi. Comunque.

Sono dodici le targhe dei caduti del 15/18 in questo paese, ma i nomi e i cognomi sono meno, sono i soliti che si ripetono, come capita nei paesi: un Galetto, tre Miola, quattro Rolle, quattro Bonino. Tre di loro si chiamano Lorenzo, come il santo patrono, due Giuseppe, uno Domenico, uno Francesco, uno Valentino, uno Pietro, uno Michele, uno Antonio. Tutti nomi semplici, noti, diffusi, tranne uno. Eccolo lì, il secondo da sinistra partendo dall’alto: Rolle, e fin qui niente di strano, Schiamaricco. Proprio così: Schiamaricco.

Cercatelo sul dizionario dei nomi: non c’è. Scrivete Schiamaricco su un motore di ricerca: niente.

Un nome che non esiste, che non ha (o sembra non avere) etimologia, santi, omofonie. Un nome unico, forse portato da una sola persona, dall’origine sconosciuta, e per questo, magari, da inventare, da immaginare.

Come può essere andata? Perché alla fine dell’ottocento, in un piccolo paese di poche anime, con quattro cognomi in tutto, a qualcuno è venuto in mente di chiamare un figlio così?

Immaginiamo di non conoscere l’inglese (personalmente non devo fare un grande sforzo): sappiamo solo, o almeno crediamo di sapere, che una parola inglese spesso è più corta, abbreviata, rispetto alla stessa parola in italiano; che ne so: cat, se lo dicessimo bene, all’italiana, sarebbe catto, non così diverso dall’italiano gatto. Oppure car, se gli inglesi non avessero questa fissazione di finire le parole in fretta, sarebbe carro, e da lì all’automobile, si capisce, il passo è breve. Poi, per complicare ancora di più le cose, sappiamo anche che delle volte gli inglesi cambiano il suono di alcune vocali.

Immaginiamo di non conoscere l’inglese, dicevo, e di avere davanti un inglese e di improvvisare una conversazione. A un certo punto, più o meno a gesti, riusciamo a capire che all’inglese gli è appena nato un figlio, anzi una figlia, una bambina. Allora parlando forte, facendo bene attenzione a scandire le parole e a evidenziare il labiale, quasi come se parlassimo con un sordomuto, diciamo: quale-è-suo-nome?

L’inglese, che un po’ di italiano lo capisce anche se non lo parla, si adegua al nostro tono di voce e alla nostra dizione e scandisce una domanda per essere sicuro di aver compreso la vostra: her-name?

Noi, che siamo uomini di mondo e abbiamo quelle nozioni di base che abbiamo detto prima, capiamo subito che nella parola che abbiamo appena sentito, che suonava: neim, si nasconde una o al posto del suono ei, e che, tanto per cambiare, gli inglesi hanno tolto la vocale alla fine di una parola, fermandosi alla m, ma che se ci mettiamo la e la parola pronunciata dall’inglese diventa: nome.

Sagaci: un po’ lenti ma sagaci. Così rispondiamo, come un sol uomo: yes … neim!

L’inglese a quel punto dice: It’s Harriette.

Alla sera, a casa, raccontiamo dell’incontro e del dialogo esotico in famiglia, anche con un po’ di orgoglio per essere riusciti a avere una conversazione con un inglese di madre lingua. La cosa che più ci ha colpito, però, è il bizzarro nome della figlia di questo inglese.

Perché, come si chiama? Ci chiedono.

Izzarietta.

Torniamo a Schiamaricco. Schiamaricco, secondo me, è parente stretto di Izzarietta, con la differenza che suo padre, o il parente che è andato a denunciarne la nascita, era piemontese e parlava, probabilmente, solo il piemontese. Il funzionario dell’anagrafe, invece, conosceva il piemontese bene come noi, nell’esempio di prima, conosciamo l’inglese.

Quando è nato?

Ier.

In che data.

Ier: al dui d’utuber.

Il funzionario traduce sulla carta: due ottobre 1886.

Poi chiede: qual è il cognome?

Role

Rolle?

Sì.

Il funzionario scrive. Poi chiede:

Il nome?

Eh?

Come-si-chiama-il-bambino?

S’ciama Ricu.

Il funzionario scrive: Schiamaricco.

Rolle Schiamaricco, classe 1886, morto nella prima guerra mondiale. Forse la storia del suo nome non è proprio questa, forse ha fatto in tempo, prima di morire (comunque troppo giovane) a avere moglie e figli e qualche nipote sa veramente come sono andate le cose.

C’è però un ultimo scarto mentale che non riesco a non fare: pensate a un figlio di Rolle Schiamaricco classe 1886 che va a denunciare la nascita del figlio, maschio, il primogenito, un figlio a cui per tradizione si da il nome del nonno. Pensate se questo padre un po’ emozionato e abituato a parlare sempre in dialetto in famiglia (siamo negli anni cinquanta), alla domanda dell’impiegato dell’anagrafe su come si chiama il nuovo nato risponde, in dialetto: s’ciama Sciamaricu. Pensate poi se l’impiegato dell’anagrafe, magari originario di Caserta naturalizzato piemontese solo di recente, ma con un buon orecchio per le lingue straniere, riporta sul suo registro: Rolle Schiamaschiamaricco.

Pensate al trisnipote.

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