Venghino signori venghino! Le porte dell’Africa sono aperte. “Il potenziale inespresso – in termine di investimenti – del nostro continente è probabilmente il più alto del mondo”. A dirlo è Sua Eccellenza Ernest Bai Koroma, il presidente della Sierra Leone, davanti a un folto gruppo di investitori e manager riuniti a Londra per la seconda edizione di Private Equity in Africa, un “leadership summit” organizzato la settimana scorsa dal Financial Times. L’Africa sarebbe il nuovo mercato emergente, in grado di far presto impallidire i BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) e le tigri d’oriente. E Bai Koroma non smette di ricordarlo. “Nei prossimi 10-20 anni l’Africa avrà uno sviluppo notevole, sicuramente per le nostre risorse minerarie. Ma non solo: ci sono anche i terreni agricoli, largamente sottoutilizzati”.
L’Africa ospita il 60% dei terreni coltivabili del mondo, ma solo il 15% sarebbe attualmente sfruttato. E poi ci sono le telecomunicazioni, tutte da sviluppare, i servizi bancari, l’energia, l’acqua. Un eldorado per “fondi di private equity, investitori istituzionali e privati”, che il presidente della Sierra Leone, l’ottavo paese più povero del mondo, invita a entrare in Africa al più presto vincendo i pregiudizi sulla sicurezza di un continente che si sta finalmente rimettendo in piedi.
Bai Koroma è un omone di un metro e novanta, con lo sguardo bonario. Stringe le mani ai politici e ai giornalisti in prima fila e si prepara a rispondere alle domande. Non vede l’ora di tirare fuori il suo paese dall’ombra di una guerra civile che ha ucciso 50.000 persone e distrutto – fisicamente e psicologicamente – migliaia di bambini soldato. Per attrarre gli investitori ha reso più snelle le procedure di registrazione delle imprese (“le più rapide in tutta l’Africa”) e ha introdotto incentivi fiscali per l’agribusiness, le estrazioni minerarie e il turismo.
La domanda più importante, in realtà, salta fuori in una delle tavole rotonde successive, quando il Presidente ha già lasciato la sala. A porsela sono i rappresentanti di alcuni fondi di private equity: “qual è la migliore strategia di uscita dall’Africa?”, si chiedono i vari “CEO” e “Founding Partners”. Per rispondere viene presentata un’ampia casistica di “uscite di successo” da parte di chi in Africa c’è già stato, portando a casa notevoli risultati.
Al momento delle domande alza la mano un giornalista africano. “Ma come – chiede il giornalista – non siete ancora entrati e già pensate a uscire? L’Africa ha bisogno investimenti di lunga durata”. Il panel di esperti è imbarazzato. Risponde che, no, non è vero, i fondi di private equity investono per rimanere almeno sette anni. Però l’Africa è rischiosa e servono “maggiori garanzie” per l’uscita.
Anche perché, per facilitare l’entrata, le garanzie sono già offerte dalle DFI (Development Financial Institutions): le istituzioni finanziarie per lo sviluppo. Banca Mondiale, Banca Europea degli Investimenti, Banca Africana di Sviluppo. Istituzioni pubbliche che funzionano da trampolino di lancio per i fondi privati in Africa, sottoscrivendo fino al 30% del capitale di partenza.
In uno degli ultimi incontri prima del networking dinner e dei complimentary refreshments sono proprio i rappresentanti delle istituzioni finanziarie pubbliche a tenere banco, corteggiati dalle domande sornione degli investitori privati: “presto avremo bisogno di voi per il lancio di un nuovo fondo in Africa. Come ci consigliate di comportarci?”. La ricetta del futuro boom africano – se mai ci sarà – è tutta racchiusa in questo gioco delle parti. Basta fermarsi un attimo e mettere insieme gli ingredienti: investitori privati, affamati di rendimenti, che giocano con soldi pubblici e cercano di uscire al più presto dalle scommesse.
Mentre mi perdo in questi ragionamenti, tra una tartina e un Blanc de Blancs, mi si avvicina il rappresentante di un fondo di private equity. “Sarebbe disponibile a investire nel nostro fondo?”, mi chiede. No, grazie. In realtà lo sto già facendo con le mie tasse.