Ogni volta che torno in Italia la domanda fatidica arriva puntualmente: “Ma dimmi, che si dice dell’Italia dove stai tu, che si dice di noi?”. Dietro alla domanda si percepisce vera curiosità mista a timore e anche all’istinto di rifiuto preventivo della risposta. E io ogni volta non so bene cosa rispondere, soprattutto dopo le prime volte in cui, per troppa sincerità, ho finito per deludere e/o infastidire il mio interlocutore.
Stavolta però posso prendere spunto da due articoli del giornale belga olandofono a cui mia moglie è abbonata, “De Standaard” (per semplificare: mutatis mutandi, un “Corriere” delle Fiandre).
Il primo articolo è dell’edizione weekend del 6 e 7 novembre e si intitola “Arrivederci Roma?!”. Si basa su un’intervista telefonica a Claudia Cucchiarato, trentunenne giornalista e autrice del libro “Vivo altrove” (e ideatrice del sito/blog www.vivoaltrove.it in cui tra l’altro si lancia il manifesto degli espatriati), emigrata da Bologna a Barcellona cinque anni fa. La Cucchiarato fa un quadretto poco ottimista dei nuovi emigranti italiani: giovani, qualificati e disillusi sulle speranze di futuro che il loro (il nostro) Paese riserva. Quindi se ne vanno, in cerca di fortuna o piuttosto in cerca delle opportunità che dovrebbero essere presenti dovunque, e invece in Italia non lo sono. Perché? Cinque cause, secondo Cucchiarato:
1) un problema di mentalità, per cui i giovani (intendendo per giovani i trentenni) sono considerati dei ‘grandi bimbi’, insomma dei bamboccioni, e non vengono presi sul serio;
2) anche con lauree e master, non si parla di contratti stabili fino oltre i 40 anni, il che è un’ipoteca seria alla costruzione di una vita familiare e inoltre rende il resto del mondo sviluppato estremamente attraente;
3) il rigido sistema delle ‘caste’ italiane, rinforzato dalla barriera d’ingresso dell’esame di stato e dagli ordini professionali;
4) l’ulteriore barriera della pratica obbligatoria, superabile tramite conoscenze o costosissimi corsi di formazione (per i punti 3 e 4 viene portato l’esempio della professione giornalistica);
5) il fossato tra università e mondo del lavoro, che rinforza la trasmissione delle professioni da padre in figlio escludendo gli ‘esterni’ (esempio portato: la professione medica, sempre più simile a quella notarile).
L’articolo si conclude con un’intervista alla ricercatrice Maria Carolina Brandi, che da tre anni studia questo fenomeno di nuova emigrazione relativamente poco conosciuto: se da un lato siamo bombardati di dati sull’immigrazione extracomunitaria, clandestina e non, per l’emigrazione di questo tipo dipendiamo dalle statistiche degli altri Paesi.
Purtroppo l’articolo non ha un happy ending. Per questo fenomeno tipicamente italiano, ben diverso da quello della ‘generazione Erasmus’ che porta i giovani di tutti i Paesi europei a essere più mobili di un tempo, nessuna soluzione sembra in vista.
Ecco, questo dicono (tra l’altro) di noi.
Certo, poi come al solito fanno più notizia argomenti di altro stampo. E qui prendo spunto da un altro atricolo dello stesso giornale del 9 novembre, intitolato “Disgustata da Berlusconi” (traduzione mia). Non ho capito bene se è una traduzione di un articolo del ‘Corriere’ di Maria Laura Rodotà oppure qualcosa che la Rodotà ha scritto apposta per De Standaard. Poco importa. Contiene alcune frasi che mi sembrano illuminanti, per esempio: “Essere italiano in quelli che possono diventare gli ultimi giorni di Silvio Berlusconi è disorientante. Essere una donna italiana ancora di più”. Finalmente! Mi chiedevo da tempo dove fossero finite le donne italiane, dove fosse finita la loro dignità. Tutte emigrate, a parte le escort? Evidentemente no. La frase continua cosí: “Molti di noi ne hanno abbastanza e si vergognano. Ma siamo anche divisi”. E già. Divisi. Tra quelli che considerano che gli uomini sono cosí e che quello che succede in camera “non ha importanza, purché il governo ci protegga dal crimine e dagli extracomunitari“; e quelli che invece si stupiscono che “tutti, e soprattutto gli uomini, considerano gli scandali sessuali più come un’arma politica e un rischio politico che una questione etica”.
La domanda che aleggia sotto una foto del Presidente è: “Quale altro Paese lo lascerebbe ancora governare?”.
Non entro nel merito dei due articoli. Resta il fatto che questo è quanto i belgi vedono (e capiscono) dell’Italia, al di là delle brochure turistiche.
Abbiamo quindi, per lo meno, un problema di immagine. Che dopo Pompei rischia di estendersi anche alle brochure turistiche.
Disclaimer: Come riportato nella bio, il contenuto di questo e degli altri post del mio blog è frutto di opinioni personali e non impegna in alcun modo la Commissione europea.