Il Paese delle bambole gonfiabili
Padre di tre figlie, sono particolarmente sensibile all’idea di “femminile” trasmessa dalle vicende che hanno ingolfato le ultime cronache politiche italiane; conferma di una spaventosa degenerazione culturale, ormai dilagata a costume dominante.
Ossia l’imposizione di stereotipi volgari e dementi che deviano verso l’acquitrino di un sessismo macchiettistico il percorso di emancipazione della donna, che da “angelo del focolare” l’aveva portata a rappresentarsi come “altra metà del cielo”; dalla subalternità (non priva di rispetto, seppure fastidiosamente retorica) alla liberazione in quanto soggetto pienamente titolare di sacrosanti diritti.
Certo, molto doveva ancora realizzarsi in materia, ma la tendenza in corso sembrava quella; apprezzabile. Del resto, niente di particolarmente diverso da quanto avviene nei Paesi che chiamiamo civili.
Ma anche in questo caso la corsa al peggio che caratterizza i nostri ultimi decenni fallocratici (dal celodurismo a rischio del coccolone di Umberto Bossi al priapismo senile di Silvio Berlusconi) ha prodotto i suoi sfracelli. E i modelli standard dell’altro genere sono diventati l’apoteosi della chiacchiera da avvinazzati di mezz’età in qualche Bar Sport, con annessa sala biliardo decorata con calendari senza veli di future ministre.
- Primo Modello: la bambola gonfiabile per uomini soli, ossia ragazzotte di provincia o periferia dai caratteri sessuali secondari ipertrofici (dunque capellute, tettute e chiappute) che si offrono, passive come quarti di bue appesi al gancio della macelleria, alla bavosa libidine di casi umani con qualche problema erettivo; un problema cui proprio la passività dell’oggetto delle brame parrebbe ovviare. Difatti tale tipo femminile è molto apprezzato dagli “utilizzatori finali” avanti con gli anni e affetti da problemi alla prostata, visto che li illude di aver ritrovato presunte “potenze” del passato. Ma non è disdegnato neppure da sedicenti critici d’arte che pensano di intellettualizzare tale miserrimo rapporto buttandolo sull’estetica del voyeur. Insomma, povere creature che intenderebbero riscattare la propria provenienza con la promessa di un successo effimero quali comparse nel mondo dello spettacolo (o in politica, che ormai è un po’ lo stesso). Intanto le loro mamme-impresarie (o loro stesse) vanno alla ricerca di una certa distinzione imponendo(si) nomi pretenziosi ed esterofili (Noemi, Nicole, Ruby…) – d’arte o meno – che dovrebbero servire a far dimenticare l’odore di soffritto stagnante nei tinelli e nelle cucine delle case natie.
- Secondo Modello: la kapò, ossia la guardiana. Quella che si gratifica nell’ottenere briciole di apprezzamento presidiando come un cane da guardia il dominio maschile che le svilisce. Tipico il caso della madre islamica infibulata, prima a pretendere che tale mutilazione venga imposta anche alla propria figlia. Non sono troppo diverse le pretoriane del premier, pronte a giustificare ogni comportamento o dichiarazione lesiva della dignità femminile in cambio di un posticino al sole. Personaggi tra il patetico e il tragico, come l’Isabella Bertolini star del tortellino e ras emiliano della Casa della Libertà, che svendono quotidianamente l’essenza di genere in cambio della sicurezza derivata dalla benevolenza del maschio dominante. La più perversa smentita dell’idea che Romain Gary aveva al riguardo, quando scriveva che «non è mai esistito un valore di civiltà che non fosse una nozione di femminilità». Ma dov’è questo valore di civiltà nel servilismo peloso di tali collaborazioniste al servizio, stile stuoino, della propria oppressione?
- Terzo Modello: la uoma, ossia quella “più maschio del maschio”. La tipologia propagandata dagli spot della donna in carriera con mini tailleur e cascata di capelli gonfiati dallo shampoo. Messaggio bugiardo, visto che in Italia nove top manager su dieci continuano a essere maschietti; appurato che nel mondo Mediaset le fanciulle possono aspirare solo al ruolo di tappezzeria. Eppure irresistibile per presunte femmine falliche, il cui esempio più deprimente è oggi la governatrice di Regione Lazio Renata Polverini, quella che imboccava di rigatoni i leghisti denigratori della romanità sorridendo sotto un caschetto di capelli tipo spaghetti al sugo di seppia, intenta a dimostrarsi all’altezza delle virtù mascoline riempiendo il proprio Ente di trombati alle elezioni e gratificandoli di faraonici contratti consulenziali. Sarebbe questo il “tocco femminile”?
Insomma, anche contro la donna è in corso una guerra non dichiarata eppure feroce (come contro i gay, gli immigrati, gli operai…). E talune sventurate inseguono il carro dell’apparente vincitore…
Una guerra per tutelare il traballante ordine patriarcale, che vede scendere in soccorso perfino le gerarchie vaticane omofobe (magari andando pure contro le proprie inclinazioni sessuali) e impaurite dagli effetti sovversivi per il loro potere che deriverebbero da una società più al femminile. Magari una società che desse spazio (lo spazio che compete) a quelle ragazze che mi ritrovo in aula quando faccio lezione, spesso più brave dei loro colleghi maschi, che quando entreranno nel mondo del lavoro saranno zavorrate da un handicap. Quello di essere donne. Specie in una società che pretende di relegarle nelle posizioni tracciate dal machismo di questi anni berlusconizzati.