La Gran Bretagna come Rosarno. Un documentario del canale britannico privato Channel 4 dal titolo “Fashion’s dirty secret” denuncia le invivibili condizioni di lavoro in una fabbrica di Leicester. Questo “sweatshop”, come lo chiamano gli inglesi, non si trova nello slum di Mumbai, né alla periferia di Hong Kong, ma nel cuore della Gran Bretagna. Si tratta di una fabbrica lager, dove si lavora 10 ore al giorno per 2,50 sterline l’ora, meno della metà del minimo sindacale (che è quasi 6 sterline). Ha il pomposo nome di “Sammi Leisurewear Limited”, in realtà è uno scantinato buio, con i cavi elettrici a vista, le uscite antincendio bloccate, i muri scrostati dall’umidità e un caldo soffocante che toglie il respiro. Alle macchine da cucire, tutte senza protezioni di sicurezza, sono seduti trenta moderni schiavi.
Un giornalista sotto copertura ha lavorato in un paio distabilimenti per tre mesi, denunciando un sottobosco sconvolgente di sfruttamento, umiliazioni e abusi. In questi luoghi, non chiedono documenti, né permesso di lavoro o visto. Non chiedono neppure “come ti chiami”. Se ti presenti in queste fabbriche fatiscenti, nascoste nel garage di un casermone in disuso, significa che sei disperato. Significa che hai bisogno di soldi, a qualunque condizione. Sei forza lavoro da sfruttare. E non hai diritti.
Le reazioni non si sono fatte attendere. L’esistenza di questi laboratori era nota, ma mai prima d’ora le condizioni dei lavoratori erano state documentate in maniera così esplicita. “Questa gente non ha ancora capito che esiste un minimo salariale, è una situazione indecente”, ha commentato Anna McMullen dell’associazione Labour Behind the Label, che si batte contro lo sfruttamento. Mentre il gruppo No Sweat ha riproposto un boicottaggio particolare: riportare ai negozi i capi che sono stati confezionati da manodopera a basso costo e pretendere il rimborso. Il ministro del Lavoro Ian Duncan Smith ha espresso preoccupazione e promesso un intervento del governo.
Ma intanto in questi sotterranei umidi continua la vita di chi non ha altra scelta. I caporali minacciano il licenziamento ogni pochi minuti. Bisogna lavorare in fretta altrimenti si perdono anche quelle quattro sterline. Si cuciono capi per le catene di negozi che offrono a poco prezzo le copie degli abiti visti in passerella. Tra i clienti c’è per esempio New Look, che l’anno scorso ha registrato un profitto di 163 milioni di sterline (è il terzo gruppo tessile britannico per fatturato). Un paio di legging costa circa 10 sterline, mentre la fabbrica viene pagata 80 pence al paio.
Si lavora anche per Bhs, un altro franchising che appartiene al gruppo Arcadia del milionario Sir Philip Green, ora consulente del governo per i tagli alla spesa pubblica. Downing Street, dopo la messa in onda del documentario non ha voluto commentare, ma alcune fonti assicurano che ci sia profondo imbarazzo.
Gli impiegati di Sammi sono quasi tutti clandestini o persone in attesa dell’asilo politico, che secondo la legge non potrebbero lavorare nel Regno Unito. Disperati. Come quelli di Rosarno, la fabbrica lager delle arance, 25 euro per 10 ore di lavoro. Ora è stata demolita, ma in Italia non era certo l’unica. Il mese scorso a Verona la Guardia di Finanza ha scoperto un edificio-dormitorio, in pessime condizione igienico-sanitarie, dove lavoravano in nero 34 persone, tra cui cinque minorenni. E lo scorso maggio a Città di Castello un capannone fatiscente è risultato essere il luogo di lavoro per 25 clandestini che cucivano maglieria di cachemire. Il problema è lo stesso, dal nord al sud, dall’Italia al Regno Unito. Chi non ha regolare permesso di lavoro deve trovare una soluzione per sopravvivere. E i laboratori come Sammi sono ovunque.
In realtà la commissione non arriva direttamente dai negozi. Questi si affidano a fabbriche regolari, che rispettano le norme di sicurezza e i lavoratori. Ma poi, quando gli ordini si sovrappongono e il tempo non basta le fabbriche dal volto buono subappaltano a chiunque garantisca la consegna del lavoro in tempo. E così entrano in gioco gli sfruttatori.
Dopo il documentario shock le catene di negozi coinvolte (New Look, C&A, Jane Norman, Peacocks e Bhs) hanno reagito immediatamente dichiarandosi all’oscuro dei subappalti. Tutte e cinque hanno lanciato un’investigazione interna per punire i responsabili. Ma Channel 4 sollecita un intervento del governo, norme più severe per chi non rispetta la manodopera. Intanto il premier David Cameron è appena stato in Cina, impegnato a stringere accordi per miliardi di sterline proprio con il Paese che ha appoggiato la sua incredibile crescita economica sulle spalle di milioni di lavoratori sfruttati.
di Deborah Ameri