Travolti dal ciclone derivati, gli enti locali e gli atenei americani sono impegnati a chiudere i contratti con le major finanziarie. E così le tasse dei cittadini finiscono in mano alle grandi banche
Il dato è stato reso noto dall’agenzia Bloomberg. Dal 2008 ad oggi centinaia di enti locali statunitensi hanno sborsato più di 4 miliardi di dollari per chiudere i contratti derivati siglati con le grandi società di Wall Street e rivelatisi terribilmente svantaggiosi. Una cifra micidiale scaricata di fatto sulle spalle dei contribuenti e finita nelle tasche di quelle stesse banche – tra cui Citigroup, JP Morgan, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley – grazie alle quali le agenzie si erano illuse di ottenere un risparmio.
Il fenomeno coinvolge una moltitudine di sventurati, dall’autorità per le risorse idriche della California fino al distretto scolastico di Butler, Pennsylvania, passando per le più prestigiose università d’America, come Harvard o la Cornell. Tutti coinvolti in un disastroso piano di ristrutturazione debitoria avviato alcuni anni fa. La storia è nota: prima della grande crisi, gli enti statunitensi avevano finanziato le proprie attività emettendo obbligazioni per un controvalore di 2.800 miliardi di dollari. Il rischio, a quel punto, era che i tassi di interesse, già ritenuti elevati, potessero salire ancora facendo crescere di conseguenza il debito. Un’eventualità da evitare a tutti i costi. A risolvere la situazione ci pensarono le banche che, chiamate ad assicurare i bond, misero sul piatto qualcosa come 500 miliardi di dollari di derivati. Un autentico arsenale.
I contratti in questione sono noti come interest rate swaps e servono ad ammortizzare le oscillazioni dei tassi. Le due parti si scambiano periodicamente denaro sotto forma di interessi sul capitale delle obbligazioni. Uno dei contraenti versa sempre un tasso fisso, l’altro ne eroga uno variabile (calcolato su un interesse di riferimento di mercato) che deve essere compreso entro un limite massimo ed uno minimo. Per anni, aveva già rivelato il Wall Street Journal, gli enti avevano versato alle banche rate fisse anche superiori al 3% ricevendo in cambio la quota variabile che, alla discesa dei tassi, si era attestata in molti casi anche al di sotto dello 0,5%. Le banche, in altre parole, si sono trovate a versare rate minime ricevendo in cambio pagamenti anche sei volte superiori. Un vero affare.
Inizialmente convinti di risparmiare, gli enti Usa si impegnano ora a chiudere i contratti ma questo, come detto, comporta una perdita di 4 miliardi (il cosiddetto termination payment). Alla chiusura del contratto, il dipartimento californiano delle risorse idriche ha sganciato oltre 300 milioni a Morgan Stanley mentre l’amministrazione pubblica del North Carolina ne ha versati quasi 60, più o meno la somma dei salari annuali di 1.400 impiegati statali. All’Università di Harvard è andata ancora peggio: l’ateneo ha infatti sborsato più di 800 milioni per farla finita con i maxi swap da 1,8 miliardi siglati a suo tempo con JP Morgan e Goldman Sachs.
La vicenda statunitense richiama da vicino la nota esperienza italiana. Secondo gli ultimi dati disponibili a finire nel tritacarne della finanza strutturata sarebbero stati dal 2002 almeno 664 enti pubblici della penisola responsabili della firma di contratti derivati per un valore complessivo pari a 35 miliardi, all’incirca un terzo del debito accumulato dalle amministrazioni (107 miliardi). Proprio gli interest rate swap sono al centro del processo per truffa aggravata contro quattro istituti (Deutsche Bank, Ubs, JP Morgan e Depfa Bank) e due ex amministratori coinvolti nella stipula di contratti con il Comune di Milano a protezione di un’emissione di obbligazioni da 1,68 miliardi. Il procedimento aveva preso il via con un esposto avanzato proprio da Palazzo Marino nel gennaio 2009. L’advisor legale Pavia e Ansaldo, si è scoperto di recente, aveva segnalato le criticità contrattuali al sindaco Letizia Moratti quasi un anno prima.
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