E’ stato questo il monito del Presidente Napolitano che ha caratterizzato la vita politico-economica della scorsa settimana, raccogliendo il consenso di tutte le forze politiche.
È infatti ancora la crisi economica il catalizzatore delle problematiche più serie del Paese.
Ma quali sono i veri spazi decisionali del Governo e del Parlamento? Cosa possono decidere realmente con la Finanziaria?
In teoria si dovrebbe valutare per cosa si paga (quali investimenti fare o quali servizi istituire), quanto si paga e chi paga.
Prima il dibattito parlamentare per l’80% era stato caratterizzato dalle discussioni relative alle manovre di finanza pubblica. Oggi, invece la politica economica è sempre più decisa mediante decreti legge di natura governativa e urgente, senza un’ampia discussione parlamentare.
Anche perché gli spazi decisionali sono molto limitati.
In realtà oggi il cosa si paga, essendo elevatissime le spese per il debito e molte le spese incomprimibili, non lo decide più il Parlamento: si pagano in primo luogo i debiti e gli stipendi.
Di fronte ad un debito troppo alto si potrebbero teoricamente fare scelte diverse: ad esempio non pagare o pagare in parte (come ha fatto l’Argentina), lavorare di più per pagare (come si faceva prima con la Banca d’Italia svalutando la lira – e di conseguenza il debito pubblico- per stimolare la produzione e il lavoro) o tirare la cinghia facendo i necessari sacrifici.
Nella realtà oggi si dà per scontata la scelta di dover tirare la cinghia e si può al massimo decidere cosa tagliare per spendere diversamente.
Gli stessi ministri lamentano l’assenza di risorse per le proprie politiche e gran parte del dissenso sociale deriva dalla scelta di tagliare sempre più spese e servizi. L’alternativa è, ovviamente, alzare le tasse.
Questo comportamento corrisponde anche al fatto che la politica economico-monetaria è sempre meno nazionale e sempre più eterodeterminata a livello europeo e mondiale.
In estrema sintesi potremmo dire che mentre la politica economica del dopoguerra è stata caratterizzata da una ricerca del consenso elettorale mediante spese sempre crescenti da rinviare alle generazioni future, la politica dell’ultimo ventennio ha dovuto sempre più fare i conti con l’eccessivo indebitamento, spostando progressivamente il potere decisionale dallo Stato (debitore) ai creditori (il mercato e gli Stati Esteri).
Anche il quanto si paga (senza più la politica monetaria autonoma della Banca d’Italia) è deciso altrove.
Uno dei principali strumenti, infatti, la politica monetaria, che pure aveva evidenti effetti collaterali, non è più prerogativa nazionale.
In passato vi erano diverse politiche possibili: quando la Banca centrale era nazionale e non europea si poteva ad esempio svalutare la lira e con questa operazione incentivare la produzione verso l’estero.
Dopo la creazione dell’euro, e senza aver approfittato della possibilità di abbattere il debito pubblico usufruendo dei tassi di interesse minori (chi ha provato ad alzare le tasse diminuendo il debito ha perso ben presto il consenso elettorale), questa operazione non è più possibile e l’unica ad averci guadagnato veramente sembra essere la Germania, che prima aveva una notevole concorrenza dai Paesi che, come il nostro, avevano una moneta debole che rendeva convenienti gli acquisti dei nostri prodotti.
Quello che faceva l’Italia una volta per produrre (svalutare) oggi lo fanno gli Stati Uniti.
La banca centrale americana (FED) ha poteri diversi dalla BCE, che tende prevalentemente a garantire la stabilità dei prezzi e non anche lo sviluppo economico.
A livello internazionale è infatti in atto una guerra delle valute per stimolare la produzione interna: una gara al deprezzamento della moneta per stimolare i consumi.
La FED ha deciso la settimana scorsa di porre in essere una seconda misura di quantitative easing (in sostanza creare ulteriore moneta con operazioni di mercato aperto) per 600 miliardi di dollari. In pratica offrendo più dollari sul mercato, questa valuta si svaluta e diventa più conveniente per l’estero acquistare prodotti americani piuttosto che, ad esempio, cinesi.
La politica americana ha ricevuto forti critiche nel G20 del fine settimana (in primo luogo dalla Cina) proprio perché così si ha l’effetto di danneggiare il resto del mondo, che diventa meno competitivo sotto il profilo commerciale e perde di conseguenza in produttività e posti di lavoro. Inoltre nel medio e lungo termine vi è il rischio con tale politica di stimolare l’innalzamento dei prezzi. Quindi non solo rischiamo di perdere ulteriori posti di lavoro, ma anche di pagare di più per comprare i beni.
La settimana scorsa è stato sufficiente il riemergere del rischio di ricorrere al Fondo di stabilità europeo da parte dell’Irlanda per far dilatare il cosiddetto differenziale (cioè la differenza del costo) tra i titoli di Stato dell’Italia e dei paesi europei periferici rispetto alla Germania. Solo questo rischio a noi è costato diversi milioni di euro.
In pratica è la stabilità economica dei Paesi europei a determinare quanto dobbiamo pagare con la Finanziaria (perché se i conti pubblici dei paesi dell’Unione Europea diventano meno affidabili o l’Unione deve finanziare Stati in difficoltà. i creditori sono disposti a comprare il debito pubblico, anche italiano, solamente se offre un tasso d’interesse maggiore).
La scorsa settimana la Banca d’Italia ha comunicato che il debito è ormai giunto a 1.845 miliardi di euro, che le entrate sono diminuite dell’1,7% e che la crescita del periodo luglio-settembre è stata inferiore alle aspettative; la Cgil ha affermato che è stato superato nel 2010 il miliardo di ore di lavoro in cassa integrazione. A questo aggiungiamo che il Veneto e l’Abruzzo difficilmente produrranno lo stesso gettito di entrate l’anno prossimo.
Di fronte a simili dati prima ancora che ad un serio discorso relativo alla perequazione contributiva viene da riflettere se non si stia assistendo, ormai da tempo, ad una storia già scritta, in cui le decisioni sono sempre più prese all’estero e sempre meno in Italia, in cui i governanti hanno, per scelte pregresse, le mani legate e in cui il dibattito politico economico viene limitato a quali e quanti tagli operare oppure a quali ulteriori imposte introdurre e l’unica scelta è quella di decidere chi debba pagare.
Al nostro Paese resta solo da decidere chi e come pagare i debiti. Più qualche briciola per i serbatoi elettorali.
Per questo il Nord vuole il federalismo e intorno ad esso gira tutto l’equilibrio politico-economico.
Mentre quindi la preoccupazione interna si rivolge alla Finanziaria le politiche principali da opporre alla crisi sono decise all’estero.
Tuttavia, non si può escludere che prima o poi si debba ripensare a scelte più radicali rispetto al semplice decidere chi deve pagare.
Il rischio è che se si continua così accanto ai diritti del mercato si assista parallelamente al mercato dei diritti (chi paga?).
Ma qual è il massimo costo sociale sostenibile?