Uno stralcio dell'ultimo libro del procuratore aggiunto di Palermo. Il testo sarà presentato oggi pomeriggio a Milano
Nel 2002, a Palermo, Palazzo di Giustizia, nell’aula della quinta sezione del Tribunale si svolgeva il processo Dell’Utri, nel quale l’imputato era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Con il mio collega Domenico Gozzo, anch’egli pubblico ministero, avevo chiesto di sentire in qualità di teste assistito Silvio Berlusconi, in quell’anno già in carica come presidente del Consiglio. […] Berlusconi aveva assunto Mangano nella villa di Arcore e solo lui poteva spiegare sulla base di quali referenze il mafioso di Porta Nuova era stato scelto, il ruolo che Dell’Utri aveva avuto in quella assunzione, quali fossero le mansioni di Mangano, fino a quando aveva mantenuto tale incarico e le ragioni del licenziamento. […] C’era anche l’annosa questione dei flussi finanziari alle origini delle società del gruppo Fininvest e di certi “buchi neri” in quella ricostruzione che andavano chiariti. […]
Finalmente, dopo estenuanti tentativi, si concorda una data, 26 novembre 2002. È la data in cui si può andare a interrogare il Presidente a Palazzo Chigi, perché il Presidente si è avvalso della prerogativa che la legge gli riconosce, quella di essere esaminato a domicilio. […] Scendiamo dall’auto, accolti con cordiale professionalità dal personale addetto al cerimoniale di Palazzo Chigi. […]
Trattamenti differenziati
Tutti gentili, forse fin troppo, di una cordialità quasi sospetta. Infatti, l’impressione diviene certezza quando ci rendiamo conto che ci hanno messo in corsie separate. I pubblici ministeri, ospiti non proprio desiderati, da una parte, i difensori, che sembrano i veri padroni di casa, dall’altra. I giudici, invece, vengono accompagnati direttamente in una grande sala dai decori eleganti, dove vengono accolti personalmente dal Presidente, che si intrattiene con loro, amabile, e offre caffè e pasticcini. Ai pm niente, a digiuno: cosa che, a pensarci bene, è normale. Non sono forse i pm i magistrati più pericolosi, i talebani, gli eversori da cui difendersi? Comunque, alla fine, veniamo accompagnati nella sala dove si svolgerà questa strana udienza. […] Appena entriamo ci vengono assegnati i posti a tavola, come se fossimo a cena… E scopriamo così che noi pubblici ministeri siamo posizionati a un’estremità del tavolo, mentre il Presidente siederà all’estremità opposta…
[…] Da un portone sulla destra si odono tre mandate di chiave, sorde, neanche fossimo in un castello antico, e il portone, pesante, si apre. I cinefili forse si aspettano che dall’oscurità esca Nosferatu e invece viene fuori un commesso, un piccolo commesso che fa strada a Lui, che esce svelto. Saluta e si accomoda accanto ai suoi avvocati. Lo intravedo, è distante, molto distante. In tutti i sensi. Ci separano quasi venti metri. […] Tutto secondo copione, e perciò, secondo copione, un presidente dà la parola all’Altro. E quest’ultimo dichiara solennemente che ha deciso di seguire i consigli dei suoi legali, e di avvalersi quindi della facoltà di non rispondere. Tutto secondo copione. È improvviso e imprevisto, perciò, il fuori copione che introduco io. Chiedo la parola al presidente Guarnotta, che è un po’ colto di sorpresa. […]
Attacco subito, rivolgendomi direttamente a chi, seppur distante, mi sta di fronte. Faccio infatti un vero e proprio appello al Presidente Berlusconi. Dico che intendo rivolgergli un appello. Mi appello al suo senso dello Stato, certo che tutti i presenti in aula hanno uguale interesse che sia accertata la verità sui fatti oggetto del processo. […] C’è un silenzio irreale e pesante intorno. Vedo il Presidente Berlusconi attento e teso, le mascelle serrate, lo sguardo fisso su di me. Intenso, senza espressione apparente, ma serio e severo. […]
D’improvviso, il presidente Guarnotta mi interrompe, con malcelato fastidio per l’imprevisto “fuori programma”, arrestando bruscamente l’elencazione delle domande che avremmo voluto porre: “Pubblico ministero, sappiamo bene quali sono le domande per le quali è stato ammesso l’esame del teste. Non c’è bisogno di ricordare tutti i temi di prova su cui si dovrebbe articolare l’audizione. È il caso, semmai, di interpellarlo, a questo punto, per chiedergli se conferma la sua intenzione di avvalersi della facoltà di non rispondere”. E così fa. Lo interpella, gli chiede cosa intende fare […]. Silenzio, lunghissimi minuti di silenzio. Il tempo sembrava essersi sospeso. Tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di Lui, teso, i lineamenti contratti. Mi guardava.
La via d’uscita onorevole
E io ebbi la sensazione che mi stesse fissando. Era come se avesse percepito il mio intervento più come una sfida che come un appello. E sembrava che fosse tentato di raccoglierla quella sfida, di reagire, di rispondere. […] E giunse invece, forse provvidenziale, l’intervento dell’avvocato Ghedini che chiese al presidente Guarnotta di poter intervenire. Ghedini intervenne, abile e cordiale: “Ringrazio, presidente, per avermi dato l’opportunità di intervenire, per fare presente e ribadire che a questa difesa, e al nostro assistito, al Presidente Berlusconi, sta ovviamente molto a cuore l’accertamento della verità, così come al pubblico ministero. E non avremmo difficoltà ad aderire all’appello del pubblico ministero. La questione, però, è un’altra. La testimonianza del nostro assistito potrebbe aggiungere poco alla verità che è stata acquisita. Perché la verità è che tutto è stato accertato, tutto è stato chiarito, tutto è chiaro e trasparente. […]”.
Il gioco è fatto. Ghedini aveva trovato la soluzione “onorevole”, e Lui si adeguò subito, affrettandosi a rimarcare che si limitava a seguire i suggerimenti dei suoi legali, e perciò manteneva l’intenzione di avvalersi della facoltà di non rispondere. […] Prima ci fu la reazione sorpresa di Berlusconi quando il presidente Guarnotta, finita l’udienza, gli disse: “Presidente, prego si accomodi”. Come dire, vada. Può rientrare nei suoi appartamenti. […]
Quindi raggiunse verso il drappello di difensori e consulenti per stringere le mani. Qui accadde qualcosa di festoso, si creò una calca per farsi strada, per raggiungerlo, potergli stringere la mano. E fu così che nella precipitazione e nella confusione qualcuno urtò anche una sedia che si capovolse fragorosamente. Storie d’Italia, storie di italiani. Poi, Lui uscì dalla sala. Lasciò la scena, inghiottito dall’oscurità al di là della porta pesante, che lo aveva introdotto. […] Restammo soli e si chiuse presto l’udienza. Poi toccò ai convenevoli e ai saluti di commiato. Tornò l’uomo alto e distinto del cerimoniale che ci aveva accolto. Ci accompagnò cortesemente ma rapidamente verso l’uscita, e ci consigliò, per ragioni di sicurezza e discrezione, di uscire dal retro del Palazzo, invece che dall’ingresso principale. Così andammo via. Qualche ora dopo, vedendo i telegiornali, mi resi conto che analoga cautela non era stata consigliata ai legali di Dell’Utri e Berlusconi, che uscirono dall’ingresso principale, dove erano appostati giornalisti e telecamere.
di Antonio Ingroia
da Il Fatto quotidiano del 16 novembre 2010