I prezzi del cotone stanno andando incontro a un’impennata senza precedenti aprendo la strada a nuove opportunità di profitto. Ma dagli effetti benefici della corsa al rialzo sono esclusi i principali produttori africani, protagonisti, ad oggi, di un settore agricolo letteralmente massacrato dalle politiche protezioniste di Usa, Cina e Unione europea. E’ la denuncia presentata in un rapporto pubblicato oggi dalla Fairtrade Foundation, un’organizzazione indipendente di base a Londra che conta sul sostegno di ong quali Oxfam, Traidcraft e World Development Movement.
La storia è quanto di più beffardo possa essere concepito, soprattutto in un momento come questo in cui la preziosa commodity sembra meritarsi più che mai il soprannome di “oro bianco”. Qualche giorno fa, i contratti futures per le consegne del mese di dicembre hanno spinto la libbra di cotone a sfondare quota 1,5 dollari, il livello più alto di sempre. Un aumento su cui giocano tanto i danni alle coltivazioni texane quanto la crescente domanda della Cina, il principale consumatore mondiale. Le opportunità di crescita dei ricavi, insomma, non mancherebbero di certo. Peccato, tuttavia, che i quattro principali esportatori africani – ovvero Benin, Mali, Burkina Faso e Ciad – siano tuttora impossibilitati ad adeguare al rialzo la propria produzione sperimentando, al contrario, una contrazione del settore che non sembra avere fine: dal 2005 al 2009, segnalano i ricercatori, la quantità di cotone coltivato in Africa si è pressoché dimezzata.
A pesare sulle disgrazie del continente sono state soprattutto le politiche agricole condotte nel resto del Pianeta. I rialzi degli ultimi mesi, è bene ricordarlo, sono decisamente in controtendenza con l’esperienza storica che aveva visto il prezzo del cotone dimezzarsi nello spazio di quarant’anni. La perdita di valore, ovviamente, ha colpito tutti quanti ma, a differenza dei colleghi africani, negli ultimi nove anni i produttori di Cina, Stati Uniti, India ed Europa hanno potuto godere di sussidi complessivi per 47,6 miliardi di dollari. Una cifra notevole per una singola produzione che identifica a detta di molti uno dei più clamorosi casi di concorrenza sleale perpetrata ai danni delle nazioni più povere; nonché l’ennesima negazione dei principi di Doha con i quali, quasi dieci anni or sono, l’Organizzazione mondiale del commercio aveva invocato la libera concorrenza come condizione fondamentale per la lotta alla povertà.
Per capire la portata del fenomeno basta dare uno sguardo alle cifre. I soli sussidi concessi negli Stati Uniti nell’ultimo decennio (24,4 miliardi di dollari) valgono quanto i 5/6 del Pil aggregato dei 4 principali esportatori africani. I coltivatori di cotone del Burkina Faso, dove i ricavi della materia prima compensano oltre la metà dell’export, sono 250 mila, dieci volte tanto il totale statunitense, e dal loro lavoro dipende la vita di almeno 2 milione di persone. A partire dal 2001 la Cina ha sostenuto i suoi produttori con 15,4 miliardi di dollari contro i quasi 7 dell’Unione Europea che, per il 90%, si sono concentrati in Grecia. Aiuti che, ha stimato la Banca Mondiale, avrebbero abbassato del 12,9% il prezzo del cotone africano bruciando, in sostanza, qualcosa come 250 milioni di dollari di ricavi annuali.
“Il cotone è la nostra unica fonte di reddito – spiega Douda Samake, agricoltore e socio nel sud del Mali della cooperativa Mobiom Fairtrade -. I sussidi statunitensi sono l’unica ragione per la quale non riusciamo a produrne abbastanza. I contadini riescono a malapena a sopravvivere, accumulano molti debiti e abbandonano la produzione. (…) Dal momento che il cotone è il principale prodotto delle nostre esportazioni, a soffrire è l’intera economia del Paese con il risultato che lo Stato si ritrova senza più fondi per garantire l’istruzione e l’assistenza sanitaria”. In settimana, l’Unione europea presenterà le proposte di riforma della Politica agricola comune. I sussidi ai produttori di cotone, sostengono dalla Fairtrade Foundation, saranno di certo confermati.