Arrivato in Irpinia subito dopo le scosse, si trova davanti una città distrutta. Primo impegno: recuperare le persone sotto le macerie dell'ospedale
I miei sono i ricordi di un giovane carabiniere ausiliario di stanza a Napoli al Battaglione Carabinieri Campania. Quel 23 novembre era iniziato in modo strano. Ordine pubblico allo stadio di Salerno, il pomeriggio passato a contenere tifoserie turbolente e poi il ritorno alla base. I soliti preparativi dei giovani che erano sotto la naja per andare in libera uscita e altri che come me se ne erano andati a vedere la partita Juventus – Inter in sala televisione.
Ore 19.31. Sento la sedia muoversi, mi giro verso il collega che mi stava seduto dietro e gli dico di smettere di appoggiarsi al mio schienale e vedo che nessuno mi sta toccando. Da giovane ho vissuto già vissuto il terremoto, quello delle Marche del 1970, realizzo che è ancora lui e gridando dico agli altri di scappare e di seguirmi. Nessuno lo fa prendendomi per visionario e mi ritrovo all’aperto. La terra ancora trema. Mai sentita una scossa così lunga. Un rumore cupo dalle profondità delle viscere della terra fa affiorare paure ancestrali. Vedo un collega nudo in mezzo al campo di calcio. Si stava facendo la doccia e per fuggire nemmeno aveva preso l’accappatoio. Nell’immediato ho pensato al Vesuvio, la visita che avevo fatto a Pompei quindici giorni prima aveva fatto i suoi danni. Di quei momenti ricordo benissimo il caos, le notizie che rimbalzano da una parte all’altra della caserma. Prima ci fanno andare in armeria per armarci, poi contrordine, posare le carabine e tutti al minuto mantenimento a prendere picconi e pale e poi a prendere delle coperte.
Alle 23 circa si parte. Destinazione della mia compagnia (la prima detta “sciacalli”) è Sant’Angelo dei Lombardi. Ad ogni ponte o galleria sulla strada uno di noi scende dal camion e controlla che non sia crollato (chiaramente alla luce dei fari del camion e pregando San Gennaro). Si arriva a notte fonda. Una nebbia avvolge tutto il paese e ci fanno parcheggiare nelle vicinanze dell’Ospedale. Vedo un palazzo alto sei metri e della gente che sul tetto cerca con un piccone di sfondare il solaio. Sotto ci sono le culle della maternità e probamente chi scava sta cercando di soccorrere un proprio caro. Vengono tirati fuori dei bambini piangenti. Ogni tanto una scossa di assestamento fa scappare tutti. Dopo che è tornata la calma si torna a scavare. Di Vigili del Fuoco nulla. Siamo noi, i civili e i nostri quattro picconi e pale. Si lavora con la luce che viene dai fari dalle macchine distrutte collegati alle batterie.
Arriva il giorno. Le foto possono descrivere meglio quello che ho visto. Un intero paese raso al suolo. La scossa ha accartocciato l’Ospedale. Gli unici piani rimasti sono l’ultimo e il primo, riempito di macerie. Un’ala è rimasta in piedi per metà. Si vedono i letti e penso che se qualcuno fosse rimasto a dormire si sarebbe salvato. E capisco che in questi frangenti è il caso a decidere chi vive e chi muore. La caserma della Compagnia Carabinieri è crollata interamente uccidendo il comandante e la sua famiglia. Arriva ora di pranzo. Naturalmente le cucine da campo non esistono. Sono rimaste a Napoli. C’è un supermercato parzialmente crollato. Sfondiamo la saracinesca e iniziamo a distribuire i prodotti alla popolazione presente. Qualche persona ci porta il pane. Invece di soccorrere noi a loro, sono loro che ci fanno mangiare qualcosa. Riesco non so come da una cabina a chiamare a casa e a rassicurare i miei che sono vivo.
I morti vengono ammucchiati (il termine è esatto, ammucchiati) al cimitero e di ruspe per togliere le macerie grosse nemmeno l’ombra. Si continua a scavare con mani e picconi. Quanta gente si sarebbe potuta salvare con i mezzi giusti? Sono cose che a vent’anni ti chiedi. Arriva l’ora di cena. Solito supermercato. Si dorme sui camion dividendoci le coperte. Dobbiamo stare attenti a sceglierci il camion per dormire. Uno è stato riempito provvisoriamente di cadaveri.
Arriva la mattina del 25. Il freddo si fa sentire. Colazione al solito supermercato. Iniziano ad arrivare i primi aiuti. Si iniziano a verificare i primi casi di sciacallaggio. Quelli che vengono sorpresi a rubare si pestano senza tanti complimenti. Non c’è tempo di arrestarli e non si saprebbe nemmeno dove metterli visto che le celle non esistono più e il carcere è crollato. Inizia l’accaparramento delle poche casse da morto disponibili e si inizia a spargere la calce sui cadaveri al cimitero. Una troupe di una televisione tedesca cerca di riprendere questa scena e viene cacciata in malo modo. Finisce il 25 novembre. Si dorme nel solito camion.
Mattina del 26. Vedo una campagnola dei vigili del fuoco con un monsignore a bordo che è venuto a confortare la popolazione. Si allontana rapidamente appena capisce che non è il caso di chiedere come va a gente che a tre giorni dall’evento non ha ancora nulla, nemmeno una cassa per seppellire i propri morti. Malgrado il freddo pungente si inizia a sentire l’odore della morte. Sotto le macerie sono tantissime le persone ancora da tirare fuori. Adunata. Ci informano che la sera arriverà il cambio. La 1a Compagnia viene sostituita. Inutile descrivere come siamo ridotti, ma di fronte a quello che abbiamo visto ci riteniamo fortunatissimi. Al ritorno vediamo colonne di volontari che portano roulotte, vestiario e generi di primo conforto assediate dalla gente. Vengono fermate per strada e dirottate verso lidi ignoti. Parecchia di quella merce la ritroverò al mercato di Forcella mesi dopo.
Siamo a Napoli. La prima cosa che si fa è buttare la mimetica in un cassonetto e lavarsi sperando di togliere l’odore di morte e polvere dal naso. E’ tutto inutile. Dopo trent’anni ancora la sento. Naturalmente si continua a lavorare in zona terremotata. Anche Napoli ha avuto i suoi danni profondi. La notte di capodanno non verranno sparati i “botti” per impedire ulteriori crolli. Alle spalle del Battaglione stanno nascendo le “Vele” e le famiglie sfollate cercano di occupare gli appartamenti. Noi li sgomberiamo e dopo due ore li rioccupano. Si fa la guardia ai campi dove sono riunite le roulotte e i tristemente famosi container per evitare la loro occupazione. La mia cronaca da terremotato finisce nel maggio del 1981 quando vengo trasferito in Toscana.
Questa cronaca è stata scritta facendo riaffiorare dei ricordi che nemmeno credevo di avere e sfogliando uno speciale che il giornale Il Mattino di Napoli fece mesi dopo il terremoto. Sicuramente non è stata una bella pagina per la storia della Repubblica Italiana. Spero solo che gli errori che furono fatti dai nostri amministratori in quell’occasione siano serviti per creare un’organizzazione efficiente.
Giorgio Massaroni
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