Il senatore Marcello Dell’Utri ha svolto una attività di «mediazione» e si è posto come «specifico canale di collegamento» tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Palermo nelle 641 pagine della sentenza con la quale il senatore del Pdl Dell’Utri è stato condannato il 29 giugno scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il parlamentare era stato condannato per i fatti avvenuti fino al 1992 e assolto per quelli successivi.
Motivazioni – Per i giudici, Dell’Utri “ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso”. In particolare, l’imputato ha consentito ai boss di “agganciare” per molti anni Berlusconi, “una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico”. Per questi motivi la Corte ritiene «certamente configurabile a carico di Dell’Utri il contestato reato associativo“. Marcello Dell’Utri «ha svolto, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà e alle sue “autorevoli” conoscenze e parentele, un’attività di “mediazione” quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa Cosa nostra, in persona del suo più influente esponente dell’epoca, Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo”. “Una mediazione” tra i boss e l’attuale presidente del Consiglio che durò per due decenni, con la quale avrebbe consentito “all’associazione mafiosa, con piena coscienza e volontà, di perpetrare un’intensa attività estorsiva ai danni del facoltoso imprenditore milanese imponendogli sistematicamente il pagamento di ingenti somme di denaro in cambio di “protezione” personale e familiare”. Non oltre il 1992, hanno però sancito i giudici, periodo dopo il quale i pagamenti sarebbero cessati, come dichiarato da quasi tutti i collaboratori di giustizia.
Mangano – I giudici della corte d’appello di Palermo presieduta da Claudio Dall’Acqua scrivono anche circa il ruolo di Vittorio Mangano. Il mafioso fu assunto, su intervento di Marcello Dell’Utri, come “stalliere” nella villa di Arcore non per accudire i cavalli ma per garantire l’incolumità di Silvio Berlusconi. I giudici ritengono credibile il collaboratore Francesco Di Carlo, che ha ricostruito il sistema di “relazioni” di Dell’Utri con ambienti di Cosa nostra. Credono fondato soprattutto il suo racconto su una riunione svoltasi a Milano nel 1975 “negli uffici di Berlusconi” alla quale parteciparono, oltre a Dell’Utri, anche i boss Gaetano Cinà, Girolamo Teresi e Stefano Bontade che all’epoca era «uno dei più importanti capimafia”. La presenza di Mangano ad Arcore avrebbe avuto lo scopo di avvicinarsi a Berlusconi, “imprenditore milanese in rapida ascesa economica”, e garantire la sua incolumità “avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni”. Berlusconi avrebbe pagato “ingenti somme di denaro in cambio della protezione alla sua persona e ai familiari». La vicenda dei pagamenti da parte del Cavaliere si intreccia, secondo i giudici, con altri versamenti per la “messa a posto” della Finivest che all’inizio degli anni ’80 aveva cominciato a gestire alcune emittenti televisive in Sicilia.
I giudici si soffermano anche sulla condotta adottata in passato dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: “Si ha conferma – scrivono- che almeno negli anni ’70 e ’80 il Berlusconi, pur di stare tranquillo, preferisse trovare soluzioni accomodanti subendo o accettando richieste estorsive piuttosto che rifiutarle denunciando i fatti all’Autorità”. E’ lo stesso Berlusconi, in una conversazione telefonica del 29 novembre 1986 con Marcello Dell’Utri, riportata nelle motivazioni della sentenza d’appello e relariva al suo colloquio con i carabinieri di Monza che indagavano sull’esplosione dell’ordigno collocato sulla recinzione della villa di via Rovani a Milano, a dire che se coloro che avevano compiuto il danneggiamento gli avessero chiesto 30 milioni di lire egli non avrebbe avuto difficoltà a pagare.
Nessun patto politico – Non ci sarebbe invece nessuna prova certa dell’esistenza di un patto politico-mafioso, secondo quanto scritto nelle motivazioni della sentenza. L’accusa aveva sostenuto che Dell’Utri avrebbe stipulato nel 1994 un “patto di scambio” che per i giudici non è stato accertato: “Non risulta infatti provato – si legge nelle carte – né che l’imputato Marcello Dell’Utri abbia assunto impegni nei riguardi del sodalizio mafioso, né che tali pretesi impegni siano stati in alcun modo rispettati o abbiano comunque efficacemente ed effettivamente inciso sulla conservazione e sul rafforzamento del sodalizio mafioso”. I giudici ricordano che fino al 1993 i vertici mafiosi, e in particolare Leoluca Bagarella, erano impegnati a promuovere una propria formazione politica – “Sicilia libera” – di intonazione autonomista. Poi il progetto venne accantonato perchè intanto era nata Forza Italia. L’appoggio elettorale dato al partito di Berlusconi non fornirebbe però certezze sull’esistenza di un accordo. Su questo punto la sentenza sottolinea la ”palese genericità delle dichiarazioni dei collaboranti”. Da quest’imputazione il senatore del Pdl è stato quindi assolto.
Massimo Ciancimino – Un paragrafo delle 641 pagine in cui si articolano le motivazioni della sentenza di condanna in appello del senatore del Pdl Marcello Dell’Utri è dedicato a Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, che i giudici peraltro avevano deciso di non sentire. “L’incontestabile progressione accusatoria che caratterizza – scrive la Corte – con ogni evidenza le dichiarazioni sul conto dell’imputato non può che irrimediabilmente refluire in maniera negativa sull’attendibilità e sulla credibilità di Massimo Ciancimino. La Corte ha pertanto ritenuto che la pretesa rivelazione da parte del genitore sui presunti rapporti diretti Dell’Utri-Provenzano, che Massimo Ciancimino aveva taciuto per oltre un anno e 4 mesi, non era suscettibile di possibile utile approfondimento, oltre che tardiva”. Ma è solo un esempio dei numerosi portati dai giudici, che concludono: “Tutte le superiori considerazioni hanno dunque indotto la Corte a dubitare della credibilità e affidabilità di un soggetto come Massimo Ciancimino finora rivelatosi autore di altalenanti dichiarazioni”.