Ero appena salita in macchina con il mio ragazzo quando, improvvisamente, cominciammo a sobbalzare. La nostra stabilità appariva precaria quanto quella di un moscerino posto su un lenzuolo fatto ondeggiare sul letto. Era presumibile che saremmo stati scaraventati verso chissà quale direzione, visto il peso nullo che la vecchia seicento sembrava avere.
Gli alberi che fiancheggiavano la strada si agitavano fino a piegarsi sulla terra, come se una mano impietosa e fortissima li obbligasse a baciare il suolo in un movimento a dir poco innaturale. Mi chiedevo come potessero farlo senza spezzarsi. Di una cosa ero sicura: non capivamo cosa stesse accadendo, forse una tromba d’aria? Non ricordo se abbiamo pensato al terremoto. Eppure non eravamo digiuni in materia.
Rimanemmo immobili senza dire una parola, increduli e terrorizzati per un tempo che sembrò interminabile. Finché, come era iniziato, tutto finì. Allora uscimmo dalla macchina e con le mani ben serrate l’una nell’altra ci dirigemmo verso casa mia. Ancora forte era lo sconcerto che ci impediva di formulare una pur minima ipotesi, quando sentimmo un boato, prima lontano, poi sempre più vicino. Erano le grida della gente che, come un fiume in piena, fuggiva dalla paura e dalla morte.
Rispetto a quella marea impazzita, noi due ci trovavamo controcorrente. Erano tutti disperati ed usciti dalle loro case così come si trovavano. I più coraggiosi avevano indugiato a recuperare qualche effetto personale. Qualcuno gridava: “Fuite! Fuite! ‘O Vescovado è caruto!”
Per vescovado si intendeva il centro storico, proprio dove si trovava la mia casa. Il sangue mi inondò la testa ed il cuore partì in una corsa pazza. Ora avevo più paura di prima. Pensavo alla mia famiglia. La casa era vecchia ed un terremoto così non l’avevo mai vissuto né ne avevo mai sentito parlare.
Arrivammo nella piazzetta avanti al cinema Umberto dove si era radunata una parte degli abitanti del quartiere. Qui vi trovai la mia famiglia, sana e salva. Il nonno aveva la faccia rabbuiata di chi è incazzato col Padreterno, la nonna tremava come una foglia e si appoggiava a mia madre che con la sua espressione spaurita mostrava di dover sopportare un peso più grande di quanto le sue spalle fossero capaci. Poco dopo arrivò anche mio padre. A quel punto il mio ragazzo se ne andò per raggiungere la sua famiglia.
Non so quanto tempo trascorse, forse ore, non saprei, ma ad un certo punto il brulicare caotico terminò e la gente, tutta, sparì. Restammo solo noi ed un tizio del nord di passaggio in città. Un amico di mio padre ci aveva lasciato la macchina a disposizione per passarci la notte. Parcheggiati sotto la statua del re in bronzo (che a pensarci avrebbe potuto anche cadere), ci sistemammo alla meglio per superare la notte.
Guardavo la luna grande e rossa che illuminava la desolazione di quel posto. Non l’avevo mai vista così grande, quasi che la scossa avesse causato uno spostamento tale da avvicinarci ad essa. E lei prepotente aveva rubato il posto alla torre dell’orologio, caduta chissà su quale abitazione. La fissavo, stupita per la luminosità che tramutava la notte in giorno. Cosa sarebbe successo ora? La nostra casa non era crollata, ma come trovare il coraggio per rientrarci? (Non sapevo allora che non ci avrei più abitato). E perché tutti quanti erano andati via e noi no? Perché tutti avevano avuto una meta dove andare e noi no? Queste domande mi procurarono un senso di solitudine e di abbandono.
Avevo la vescica piena e per di più la nonna (una esile vecchietta di 84 anni con la schiena curva tanto da camminare guardando il suolo) era seduta su di me. Non so come feci a resistere tutta la notte a quel bisogno estremo di fare pipì, fu una tortura. Forse avremmo potuto anche trovare un’altra sistemazione o uscire dalla macchina per cercare un angolo buio tra i palazzi abbandonati dove poter scaricare il disagio, ma la paura ci impediva ogni decisione. Non la paura per una nuova scossa, ma per gli sciacalli che vedevamo correre da una casa all’altra.
All’alba gli abitanti ricomparvero come risorti dalle mura nelle quali era spariti. Qualcuno ci consigliò di far ricoverare la nonna in ospedale. L’ambulanza arrivò ed io l’accompagnai. La mamma doveva rimanere con papà che male affrontava l’accaduto e stava cominciando a cedere alla depressione. Una volta sistemata nel reparto di geriatria nell’ospedale vecchio (costruzione di epoca fascista posizionata in collina e rimasta illesa), ritornai lì dove avevo lasciato i miei. Le strade trasudavano disperazione. La gente si aggirava alla ricerca di un parente, di un amico, di qualcuno che dicesse loro cosa fare.
A mano a mano che mi avvicinavo al centro storico le case mostravano sempre più evidenti segni di sofferenza. Fino ad arrivare al punto dove prima c’era una via (Generale Cascino) che ora non esisteva più. Era tutto in frantumi e quel che rimaneva in piedi mostrava l’intimità violata, non più protetta dalle pareti squarciate. Si potevano scorgere lampadari appesi a rimasugli di soffitto, mobili rimasti in bilico su pezzetti di pavimento che avevano miracolosamente retto, travi in legno che penzolavano come le ossa e i tendini di un corpo dilaniato. Non so dire quanta gente perse la vita in quella sola strada.
Mentre camminavo molteplici sensazioni si alternavano: solitudine e sconforto, ma anche maturità e speranza. Avevo quindici anni e avevo l’impressione che passare in quella desolazione coincidesse con un ritrovarmi improvviso nel mondo degli adulti. Io che avrei avuto bisogno di protezione dovevo cercare qualcosa da mangiare. Avevo qualche soldo in tasca e nessuna idea di come e dove spenderli visto che tutti i negozi erano chiusi.
Camminavo al centro della strada per evitare eventuali crolli e per non interferire con il lavoro dei soccorritori. Le tettoie del mercato in piazza del Popolo erano state sotterrate dalle case circostanti. Chissà quanti morti anche lì. Anche l’albergo dove era sistemato il compagno della notte precedente era crollato, gli era andata bene.
Un velo bianco ricopriva le strade e ciò che era rimasto in piedi. Era la polvere, tanta polvere.
Arrivata nella piazzetta cercai i miei ma non c’erano, qualcuno mi informò che si erano trasferiti tutti nel campo da calcio della parrocchia dove i militari avevano allestito una tendopoli.
Per raggiungere il campo passai vicino la mia casa, era illesa, tirai un sospiro di sollievo, forse non avevo perso le mie cose, i miei ricordi. L’abitazione adiacente, invece, si era accasciata su se stessa senza dare scampo alle cinque persone che l’abitavano. Li conoscevo tutti.
Nel campo c’era gran movimento. La mia famiglia era in una grande tenda insieme ad altre persone attendendo l’assegnazione dei letti, completi di reti, materassi, lenzuola cuscini e coperte. C’era anche una cucina da campo. Ma non mangiai nulla, avevo lo stomaco chiuso.
Avevo il ciclo, ma per tre giorni non ho più potuto cambiare l’assorbente. Con ironia ripenso a volte alla pubblicità dei detergenti intimi, la pulizia come prima cosa e non dimentichiamo il ph. Non ricordo quando sono riuscita a lavarmi di nuovo.
Una sera è arrivato un camion di aiuti da un’imprecisata città del centro Italia. Mentre osservavo la gente che scaricava, un volontario mi si avvicinò traendomi in disparte. In due o tre giri mi nascose sotto il cappotto del pane e del latte che io poi riposi in tenda. Secondo lui non avrei visto altro del carico arrivato… e così fu. Non ho idea di cos’altro avessero scaricato. Tenni per me solo un pacco di latte. Il resto lo diedi ad un amico che passava di là.
Il mercoledì cominciò a piovere e si decise di smontare il campo trasferendo tutti in una scuola in collina. Le scuole si erano dimostrate immuni alla scossa. Le costruzioni crollate erano vecchie e in tufo. Il resto aveva resistito, anche se lesionato. Ancora vivo era il ricordo della lezione sul cemento armato che un maestro ci aveva fatto in quinta elementare, in occasione del sisma del ’76 in Friuli. Aveva preso ad esempio un palazzetto dello sport costruito fuori città. Secondo lui il terremoto non sarebbe riuscito a distruggerlo. Magari si sarebbe staccato ruzzolando giù per la collina, ma di certo non avrebbe subito danni. Aveva ragione, la scossa dell’ottanta non lo intaccò. Così come non aveva fatto crollare la mia casa, anche se vecchia, perché ristrutturata e rinforzata.
Ci sistemammo nelle aule come potemmo. Noi capitammo con altre due famiglie e, con mia nonna, tornata dall’ospedale, raggiungemmo il numero 14. Eravamo emeriti sconosciuti che in tempi normali non avrebbero condiviso la tavola, ora costretti, invece, a dormire vicini, dividendo spazi ed intimità. Mi fanno quasi ridere le beghe condominiali se ripenso a quei mesi in cui per cambiarmi gli abiti potevo affidarmi solo al riparo delle lenzuola. Non parliamo, poi, dei salti mortali necessari per lavarsi e l’uso cauto dei servizi igienici.
Per un po’ i militari ci fecero compagnia gestendo la mensa. Ma una volta andati via ci dovemmo aggiustare portando in aula ognuno la propria cucina. I vigili del fuoco e le ispezioni degli ingegneri avevano identificato quali fossero le abitazioni visitabili. La nostra era inagibile, inabitabile, ma ci era permesso di entrare. Spesso e volentieri cominciai a tornarci, dapprima per recuperare cose, poi per il bisogno di annusare la speranza di una casa propria dove poter stare. Ne calpestavo il pavimento senza timore e a volte mi fermavo a cucire a macchina, come per sfidare la sorte, per sentirmi più forte. Solo in una camera facevo fatica ad entrare, la mia, perché confinante con l’abitazione crollata. Temevo che il sostegno del pavimento si fosse indebolito e che questo avrebbe ceduto sotto il mio peso.
Naturalmente il vivere nella promiscuità forzata rendeva la vita difficile per tutti e ciò a volte creava discordia. Bastava poco perché l’atmosfera diventasse insopportabile. Questo portò diverse persone all’esaurimento.
Dopo un anno ci assegnarono finalmente un prefabbricato leggero . Essendo un nucleo famigliare di cinque persone avemmo diritto ad un dodici metri per tre. Era una struttura in legno con tetto in eternit, calda d’estate e fredda e umida d’inverno. Ma quello che mi spaventava di più era il vento. A volte era così forte da temere avrebbe scoperchiato quella casetta dall’apparenza così fragile. Allora non mi restava che accucciarmi impaurita sotto le coperte aspettando il mattino.
Anche lì durammo un anno, ma solo perché il prefabbricato prese fuoco. Per fortuna nessuno di noi fu ferito, ma ci dovemmo dividere. Il nonno trovò sistemazione in un ricovero, la nonna ed io andammo a stare nel container di un amico e i miei genitori rimasero nella roulotte che il comune posizionò di fianco al prefabbricato mezzo bruciato.
Anche questa volta per fortuna i ricordi della mia famiglia non erano andati distrutti. L’identità, la storia, l’appartenenza, era tutto recuperabile.
A gennaio il cuore stanco della nonna si rifiutò di battere oltre, senza darle il tempo di vedere l’appartamento che il comune ci avrebbe assegnato ad aprile secondo la graduatoria.
La nuova sistemazione avrebbe dovuto soddisfarci, considerando il nostro peregrinare ormai terminato, ma non riuscivamo a sentire quelle mura come nostre. Tutto ci appariva temporaneo e imprecisato. Stavamo attendendo ancora la ristrutturazione della nostra casa, quella per cui mio padre aveva speso la liquidazione. Non avevamo idea di ciò che sarebbe avvenuto in seguito per cui ci sentivamo come dei viaggiatori con la valigia intatta, sempre pronti a partire. La parola casa cominciava a non aveva più un valore affettivo. Forte era il rifiuto del legame.
L’anno successivo, mio padre decise il tempo della sua fine. Spinto dalla forte depressione che non gli dava pace, si lasciò cadere nel vuoto dal balcone del nostro terzo piano. Non scorderò la vista del suo corpo che sussultava sul lettino del pronto soccorso.
La nostra casa ci è stata “restituita” dopo quindici anni, quando ormai la decisione del distacco aveva portato via me e mia madre dalla nostra città. Avellino mi manca, tuttora mi sento un’esule in terra straniera, ma la sofferenza vissuta, la mia adolescenza perduta mi hanno costretta a cercare altrove il senso di stabilità che per così lungo tempo mi è mancata. Non è stato il timore delle scosse che mi ha indotto a lasciare il mio territorio, ma il ricordo delle umiliazioni subite dopo. Dal dover mettere le proprie scelte di vita sul piatto della convivenza, agli aiuti vagliati prima da chi aveva il potere della gestione. E al dover dire grazie a chi si nutriva della mia storia.
Dora Buonfino
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