Salvatore, all'epoca 32enne, è diventato soccorritore. Davanti alle ingiustizie della vita "me la prendevo col Padreterno", ricorda
Mi chiamo Salvatore Lena Cota, ho 62 anni, all’epoca del terremoto dell’Irpinia ne avevo 32, ero socio e concessionario di una azienda marchigiana che distribuiva prodotti tricologici per acconciatori. La vendita faceva perno su manifestazioni stilistiche ove gli acconciatori, miei clienti, si esibivano presentando loro idee di taglio e acconciatura femminile. Ne avevo organizzata una per il 23 novembre 1980, al teatro tenda Eurolandia di Cardito (NA), mentre per il giorno successivo era programmata un’altra manifestazione presso il Jolly Hotel di Avellino.
La sera del terremoto – Alle 19 Aldo Panico, uno degli stilisti, si esibiva come cabarettista insieme all’amico Lello in alcuni brevi sketch comici. Ad un certo punto, erano le 19.35, una delle gag si concludeva con la battuta: “Si nù terramoto!”. Tutto iniziò a tremare e sussultare, le luci si spensero, un boato coprì le urla della folla che, impazzita, cercava di guadagnare l’uscita. Era il terremoto! Il devastante, terribile terremoto che colpì la Campania e la Basilicata il 23 novembre del 1980: durata 90 secondi, magnitudo 6,9 della scala Richter. Mancavano le luci di emergenza, solo le fiammelle di migliaia di accendini facevano intravedere il disastro che si svolgeva sotto i miei occhi. L’amplificazione ancora funzionava, urlavo nel microfono di stare calmi, che eravamo sotto un tendone, una struttura elastica che non poteva crollare, poi anche l’amplificazione smise di funzionare. Dal palcoscenico vedevo la gente impazzita che si calpestava, urlava, piangeva e… la terra continuava a sussultare.
Vidi persone normali trasformarsi in sciacalli, rubare di tutto e scappare, pellicce, cappotti, borse, i trofei delle premiazioni, le valigette dei rappresentanti coi prodotti. Durò un’eternità, sembrava non dovesse mai smettere. Poi, all’improvviso, subentrò una calma ed un silenzio irreale. Non c’era più nessuno, tutti erano andati via. Impugnando torce elettriche, arrivarono i proprietari del teatro per chiedermi il saldo del pattuito più i danni. Li coprii di improperi, non esistevano luci e uscite di emergenza, era un miracolo che a terra non ci fossero morti o feriti per la calca che si era determinata, erano i soli responsabili della mancanza di sicurezza del locale e invece di scusarsi e preoccuparsi della nostra incolumità affidata alla loro struttura.
Il pensiero corse alla mia famiglia. Telefonare era impossibile, abbandonai le attrezzature all’Eurolandia, recuperai la mia Ford Escort e imboccai la strada di casa. Il traffico era impazzito, tutti erano per strada in pigiama e pantofole, qualcuno aveva acceso dei fuochi, gridavano, si agitavano. Per fortuna conoscevo strade secondarie interpoderali, evitai le arterie principali congestionate e arrivai Villaricca dove abitavo. Trovai mia moglie Adriana giù nel parco, con in braccio mio figlio Dario di 4 anni. Mi raccontò che la casa sussultava, la roba cadeva, le mura oscillavano, Dario urlava, poi giù all’aperto, nel parco dove l’avevo trovata.
All’albergo di Avellino – All’alba di lunedì 24 novembre, tornai all’Eurolandia a recuperare ciò che restava delle mie attrezzature, ma era sparito quasi tutto. Partii per Avellino, si era saputo che l’epicentro del sisma era stato da quelle parti ma le notizie erano confuse e frammentarie, i collegamenti telefonici erano impossibili e io ancora non sapevo se la manifestazione programmata al Jolly Hotel dovevo farla o rimandarla. Dovevo rendermi conto personalmente della situazione.
Arrivai al casello di Avellino nord, solo anni dopo lo avrebbero chiamato Avellino ovest, verso le nove del mattino. Il traffico autostradale normale come sempre, non incrociai veicoli di soccorso di nessun tipo che facessero pensare alla tragedia in corso. Pensai che forse lì non c’erano problemi, imboccai il viale dei platani e raggiunsi senza problemi il Jolly Hotel. Nella hall mi colpì l’aspetto sconvolto del direttore, un caro amico estremamente gioviale che conoscevo da tempo e che dopo quell’evento si fece trasferire a Palermo. Era seduto su un divano, sotto una coperta insieme a Louis Vinicio, il calciatore campione del Napoli che allora era l’allenatore dell’Avellino calcio. Lo avvicinai e gli dissi: “Forse la manifestazione non l’avrei fatta…”. “Forse – mi disse sbalordito, con occhi spiritati, le occhiaie da notte insonne, spettinato.-, ma ti sei reso conto di quello che è successo?”. “Vieni con me”, mi disse e si diresse verso l’ascensore. Salimmo all’ultimo piano, dal terrazzo del Jolly Hotel lo spettacolo era sconvolgente. Strade e piazze svanite sotto un cumulo di macerie, sopra tanta gente che scavava con le mani. Non si vedeva alcun mezzo di soccorso. Mi disse che arrivavano voci di migliaia di morti, strade e viadotti crollati, enormi voragini.
Frastornato uscii dall’albergo, la strada fatta all’andata era stata chiusa e transennata, svoltai a sinistra in direzione sud. Dopo meno di un chilometro percorso in un’atmosfera irreale, accanto a un cumulo di rovine vidi una figura nota singhiozzare. Ero ad Atripalda, mi fermai, era un mio cliente, quel giorno avrebbe dovuto esibirsi nella mia manifestazione al Jolly ed era lì a piangere la sua famiglia sotto le macerie della sua casa, una palazzina di due piani e il tetto era all’altezza dei miei occhi. Aveva le mani spellate, aveva scavato inutilmente da solo tutta la notte, nessuno l’aiutava, ognuno cercava i suoi cari. Sentimmo o credemmo di sentire dei lamenti, cominciammo a rimuovere le pietre una ad una, stando attenti a non generare altri crolli e intanto chiamavamo e finalmente avemmo una risposta, flebile ma costante, dicevano che si erano rifugiati sotto l’architrave del portone, che era crollato mettendosi di traverso facendo da scudo a tutta la famiglia. Ci vollero almeno sei ore per arrivare al massiccio portone, aprirci un varco e far uscire i due bambini del mio cliente, la moglie e il suocero. Non è possibile trascrivere l’emozione provata, salvare delle vite, partecipare al soccorso, condividere la gioia di ritrovarsi. Accompagnai l’amico e la sua famiglia all’ospedale di Avellino. C’era un caos incredibile, gente estratta dalle macerie con arti fratturati, coperti di polvere, gli abiti strappati, i visi lividi, tutti gridavano e piangevano. Un’umanità disperata che comprendeva l’immenso valore della vita. Andai via.
I soccorsi – Rientrando a Napoli decisi di far qualcosa. Ne parlai con Franco, l’amico che ospitavo, fu d’accordo, attrezzammo le nostre due vetture con sacchi a pelo, acqua, alimenti e coperte. Acquistammo due radio ricetrasmittenti, uno dei due baracchini era dotato di lineare per aumentarne la potenza. Completamente autosufficienti, partimmo all’alba di martedì 25 novembre. Per la strada, finalmente, colonne di mezzi militari e dei vigili del fuoco, ambulanze provenienti da ogni parte d’Italia, veicoli di volontari del soccorso provenienti da tutta Europa. La prefettura di Avellino coordinava i soccorsi via radio, dichiarammo la nostra disponibilità e chiedemmo di andare nell’area di Teora e Lioni che erano state rase al suolo. Ci chiesero se eravamo al 100% autosufficienti per l’alimentazione, il pernottamento, il carburante e strumenti da scavo. Rispondemmo di sì elencando le quantità e ci concessero l’autorizzazione.
Salvataggio a Teora – In serata arrivammo a Teora, un paese che conoscevo bene, come tutti gli altri dell’Irpinia, perché come agente di commercio ci andavo ogni mese da quattro anni. Arrivavano arrancando vetture di volontari che trainavano roulotte per la popolazione. I teoresi erano disposti lungo la salita per accaparrarsi una roulotte prima che giungesse in paese, saltavano sul vano porta bombola, ci si sedavano sopra e sgomitavano per allontanare quelli che volevano a loro volta occuparla.
Mi diressi verso il centro del paese ma non riuscivo ad orientarmi. Le case erano tutte crollate, i tetti a un metro dal suolo, le strade inesistenti. Incontrai un uomo che conoscevo, sembrava impazzito. Lo affiancai, era il marito di una mia cliente mamma di un bimbo che aveva l’età di mio figlio Dario. Era disperato, era un geometra da sempre ossessionato dal rischio sismico e si era costruito una casa in cemento armato a prova di terremoto. Infatti la sua casa era l’unica rimasta in piedi. Ma quella sera maledetta stava vedendo la partita in televisione e aveva chiesto alla moglie di attenderlo per la cena nella casa dei suoceri, una vecchia casa rurale adiacente la sua. Arrivata la scossa sismica, aveva visto dalla finestra la casa dei suoceri sbriciolarsi sotto i suoi occhi. Era convinto che fossero tutti morti e non aveva neanche provato a scavare. Gli dissi che bisognava comunque tentare e mi arrampicai sul cumulo di macerie e iniziai a lanciare lontano le tegole. Franco mi imitò. Dopo un po’ vennero ad aiutarci anche alcuni volontari bolognesi e il lavoro proseguì spedito. Alle 19.30 arrivò un’altra forte scossa sismica. Quel poco che non era crollato, rovinò sulle macerie alzando un polverone. Il lavoro proseguì tutta la notte e il giorno successivo. In serata la tristissima scoperta. Estrarre i corpi schiacciati, impolverati e irriconoscibili di una mamma e dei suoi bambini fu terribile. Unico sopravvissuto, l’anziano suocero.
Sono passiti trent’anni, ma l’angoscia e l’emozione è immutata, si rinnova nelle lacrime che mi sgorgano dagli occhi mentre batto sulla tastiera del computer questi tristissimi ricordi. Ricordo che bestemmiai, gridando e lanciando lontano i sassi, bestemmiai come non mai. Ero testimone di un’immensa ingiustizia, innocenti bambini vittime di orribile morte e un vecchio salvo e pimpante. Quella volta, più che mai, ero in disaccordo col Padreterno. Sconvolto corsi fuori dal paese, raggiunsi la mia vettura su una strada era coperta di macerie e abiti usati donati ai terremotati e invece buttati da immondi sciacalli. Mi diressi a passo d’uomo verso Lioni, ci arrivai alle prime luci dell’alba. Ero esausto, ribaltai la poltrona della Ford Escort e mi addormentai.
Il conoscente morto a Lioni – A Lioni andai a cercare Pierre, uno stilista che solo pochi mesi prima era venuto con me a New York. Lioni era peggio di Teora. Non esisteva più niente. Individuai la zona dove c’era la casa e il negozio di Pierre. Chiesi ad una vecchia signora piangente che era lì se c’erano superstiti. Mi disse di no, la sera del terremoto erano tutti lì con parenti e amici a festeggiare il battesimo del figlio di Pierre, erano tutti sotto le macerie, non si era salvato nessuno. Chiamai Franco e i volontari bolognesi per organizzare la rimozione delle macerie della casa, venne un carabiniere a dirmi che non c’era più nulla da fare, che per il recupero dei corpi erano in arrivo i militari e che avevano avuto ordine di coprire le macerie con la calce per evitare epidemie, invitandoci a renderci utili esplorando i casolari e le masserie delle campagne dove ancora non erano giunti i soccorsi.
A malincuore lasciai Lioni rivolgendo un malinconico pensiero all’amico Pierre: “Destino infame, se battezzavi il bambino un altro giorno, venivi alla mia manifestazione all’Eurolandia e ti saresti salvato tu e la tua famiglia…, per ‘colpa’ del battesimo adesso siete tutti morti, schiacciati o soffocati sotto le macerie di una casa realizzata con tanti sacrifici”. Ancora una volta me la prendevo col padreterno. Uscendo dalle macerie di Lioni, mi diressi verso Calabritto, un paesino di montagna. Ci accolse una distesa di macerie, non c’erano soccorsi. Col baracchino riuscimmo a collegarci con la Prefettura di Avellino, chiedemmo i soccorsi e ci demmo da fare per aiutare a scavare.
Il rientro – Stremato, decisi di mollare e tornare a casa. Si erano moltiplicati i cumuli di abiti usati abbandonati ai bordi della carreggiata, donati da anime buone per aiutare i terremotati, lavati, piegati e imbustati erano stati buttati via e ridotti male dalle intemperie. La speculazione di chi lucra su lutti e i disastri era iniziata. Tantissimi “onesti cittadini” finsero di aver subito danni inesistenti accedendo illegittimamente ai contributi per la ricostruzione a danno di chi i danni li subì davvero. La casa dei miei fu dichiarata inagibile e i miei genitori e i miei fratelli, si trasferirono tutti a casa mia. Dovemmo adattarci e la convivenza, ovviamente, non fu facile per nessuno. Dopo alcuni mesi la mia famiglia, nonostante il divieto dei pompieri, stanca dei disagi, affrontarono il rischio e tornarono nell’abitazione napoletana, ancora inagibile, dove tuttora abitano.
Salvatore Lena Cota
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