Tutto è legato ai motori di ricerca e alla visibilità che sono in grado di fornire. Un legame inscindibile che può essere spezzato con la creazione di un cartello di siti d'informazione che forniscano notizie a pagamento. Il problema di oggi è infatti la sovrabbondanza di contenuti
Nicholas Carr, autore di The Shallows. What the Internet is doing to our brains, ritiene che il web stia riducendo la nostra capacità di analisi, abituandoci a contenuti brevi, spot immediati. E questo vale anche per le notizie, che subiranno una drastica riduzione quantitativa. “Google, per spiegarlo con una metafora, adotta i criteri dell’uomo medio e risponde ai suoi desideri, rappresentati dai parametri di ricerca. Siamo nell’era della ipermediazione, dove milioni di click costruiscono la ricchezza per l’aggregatore e i motori di ricerca che li polverizzano sui milioni di siti. I fornitori, quindi, si spartiscono briciole infinitesimali dei loro profitti”.
La dittatura di Google è però inevitabile per consentire alle testate di rimanere sul mercato online: “Oggi le testate non hanno molte chance di sottrarsi a Google – prosegue Carr – perché non esiste un’alternativa conveniente per garantire la visibilità. Siamo in regime di sovrapproduzione e credo che oggi, per valorizzare i contenuti, sia necessaria una drastica riduzione. O quanto meno renderne visibile soltanto una parte. Il resto a pagamento”. E con la decimazione del materiale gratis online si consolidano traffico e profitti: i fornitori prendono in mano le redini del gioco e dettano le condizioni all’uomo medio, non viceversa.
Anche per John Morton, esperto dell’industria editoriale, la soluzione è che agenzie di stampa e giornali facciano cartello contro Google e la gratuità delle notizie, in linea con Rupert Murdoch e la sua idea di news sul web a pagamento. Del tutto contrario a questa ipotesi e ai relativi benefici finora teorizzati è Scott Rosenberg, autore di Say Everything: How Blogging Began, What It’s Becoming, and Why It Matters, secondo cui le barricate contro Google non sarebbero produttive per i siti di informazione, anzi: l’esclusione consapevole dal motore di ricerca, ritenuta la sanguisuga dei profitti a causa della distribuzione gratuita degli articoli, ridurrebbe sensibilmente il traffico senza determinare un incremento dei ricavi e la possibilità di far confluire sul proprio sito nuovi utenti.
Ma davvero i giornali avrebbero la libertà di giocare su un altro mercato? Pare di no, perché un’altra piazza non esiste. Google, infatti, è come Wal Mart per la vendita al dettaglio negli Stati Uniti: il leader incontrastato del proprio settore. Per questo secondo Tom Slee, autore di No One Makes You Shop At Wal Mart, l’unica soluzione è rispettare le regole del gigante, a scapito, probabilmente, del profitto. Eppure Google non pare sia al sicuro con i suoi milioni di click e la parcellizzazione dei guadagni per i fornitori. Di certo detta le leggi del mercato ma vuole salvaguardare la qualità del giornalismo e la densità informativa dei suoi milioni di link per rispondere adeguatamente ai bisogni dei propri utenti.
Linee guida che il CEO di Google Eric Schmidt ha condiviso lo scorso aprile insieme ai principali editori americani a tutela della democrazia, garantita da una buona informazione, e degli utili commerciali. “Nell’era di Internet sono state scosse le fondamenta del business dei quotidiani – spiega James Fallows, giornalista di The Atlantic – . Bisogna trovare un modello di business sostenibile, integrato con le nuove tecnologie. E la ricerca non è disturbata dagli eventuali cambiamenti degli algoritmi di Google che, in ogni caso, determinerebbero conseguenze sul breve periodo. Nel corso della storia il giornalismo ha dovuto reinventarsi e, dopo tentativi e fallimenti, ha trovato la sua strada. Anche oggi, per ragioni storiche, siamo a un punto di svolta”. Che, prima o poi, culminerà in un faccia a faccia tra gli editori e il motore monopolista per garantire la sopravvivenza, il profitto o il primato della notizia.