Circa tre milioni di lavoratori non sanno se e quando potranno votare per il rinnoco delle Rappresentanze sindacali unitarie. Colpa del decreto ch ha definito le regole per la cosidetta meritocrazia
Un indice importante che impone che i contratti abbiano validità solo se approvati da sindacati rappresentativi del 50 per cento più uno dei lavoratori rappresentati”. Se non si vota più, salta anche l’indice che non a caso il decreto Brunetta inchioda a quello misurato il 31 dicembre 2007. Nel pubblico impiego, quindi, si gioca una sorta di prova generale per rendere sempre più marginale la rappresentanza in ossequio a quella stessa logica “neo-corporativa” che anima il progetto di nuovo Statuto dei lavori presentato la scorsa settimana dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi. E si conferma così quell’asse tra Brunetta e Sacconi, entrambi ex socialisti, fortemente impegnati contro i privilegi e le preorogative dei fannulloni, impegno nel quale finiscono per essere presi di mira diritti fondamentali.
Ma la vicenda ha anche risvolti più concreti. Si parla infatti di un’elezione che, nella tornata 2006/2007, ha visto votare circa l’80 per cento degli aventi diritto. Insomma, un passaggio chiave, al di là dei reali poteri delle Rsu, con cui misurare la reale forza dei diversi sindacati e con cui i sindacati accedono ai permessi e ai distacchi sindacali con ovvie ricadute su risorse e apparati ma anche sull’agibilità sindacale, decisiva per esercitare una funzione efficace.
Ora, il decreto Brunetta fa dipendere l’indizione delle elezioni dall’accordo tra Aran (l’agenzia incaricata della negoziazione e attualmente commissariata da Antonio Naddeo, braccio destro del ministro) e i sindacati sulla ridefinizione dei comparti in cui suddividere il Pubblico impiego. Oggi sono 12 (tra cui ministeri, Regioni e autonomie locali, Sanità, Scuola, Università, Aziende, Enti pubblici) mentre il decreto stabilisce che devono essere ridotti a quattro (l’Aran propone il seguente accorpamento: Agenzie fiscali, ministeri, enti pubblici, ricerca, università; autonomie locali; scuola, accademie e conservatori; Regioni e sanità). Solo dopo questa ristrutturazione organizzativa si potrà andare al voto. Ma la trattativa è ferma. I sindacati non condividono i quattro comparti dell’Aran mentre l’Aran non fa un passo avanti e Brunetta resta a guardare. Quindi, stallo totale.
“Colpa di Brunetta – dice ancora Alfredo Garzi della Fp-Cgil – e ovviamente dell’Aran che del governo è il rappresentante. Entrambi continuano a nascondersi dietro la ridefinizione dei comparti per non far partire la procedure delle elezioni Rsu”. Con due effetti evidenti: “Da un lato non si fanno esprimere i lavoratori, dall’altro si danneggia la contrattazione del posto di lavoro anche perché una volta scadute, a fine novembre, le rappresentanze sindacali decadono. Ecco perché vogliamo l’indizione entro il 30 novembre anche se la trattativa sui comparti non fosse conclusa”.
“In realtà c’è anche un ruolo negativo di Cgil, Cisl e Uil – dice invece Paola Palmieri dell’Usb che nel pubblico impiego ha una certa forza – che siccome rischiano di subire scossoni dalla riorganizzazione dei comparti frenano. Le elezioni devono farsi subito ma comunque non prima che i lavoratori, e i sindacati, sappiano in quale comparto saranno collocati”. Contraddizioni su contraddizioni. Che non eliminano il problema principale. Perché anche se elette le Rsu rischiano di vedersi private di reali poteri visto che l’orientamento prevalente, contenuto nel decreto Brunetta, per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, è di affidare tutto alla legge. Il decreto in questione, ad esempio, decide già come distribuire gli aumenti di produttività e il salario accessorio sulla base dei coefficienti di produttività. Con regole rigide e prestabilite. Un modello che affascina la Fiat e Confindustria e che oggi rappresenta l’insidia maggiore per il sindacato italiano.
da Il Fatto quotidiano del 20 novembre 2010