Da Valerio Jalongo a Davis Guggenheim, fino a Taranto: la salvezza dell’istruzione pubblica passa dal cinema
La scuola è finita? Macché. Se Mariastella Gelmini guarda l’orologio neanche fosse in prima media e all’ultimo giorno di lezioni, il cinema continua a mettere la testa sui libri… e sui banchi. Se tre anni fa La classe fuoriclasse di Laurent Cantet era tornata a casa da Cannes con la meritata Palma d’Oro, nemmeno noi italiani bigiamo: la macchina da presa è tornata in aula con La scuola è finita di Valerio Jalongo, già in concorso al quinto Festival di Roma e ora in sala con Bolero. Tra gli sceneggiatori c’è anche Daniele Luchetti, ma tra la sua Scuola datata 1995 e questa pare passata un’era: semplicemente, si è perso un punto di domanda, perché, dice realisticamente Jalongo, la scuola è finita, ma non c’è da gioirne pensando a mari e monti. Oggi è il degrado: degradata questa scuola pubblica (l’istituto Pestalozzi, dal pedagogo che fu), degradato il quartiere periferico romano che la ospita, tanto che il triangolo di Alex (Fulvio Forti), studente con famiglia disastrata e risultati catastrofici, e i due professori Quarenghi (Valeria Golino) e Talarico (Vincenzo Amato) pare quello rosso del pericolo. La missione, dunque, non può essere che la salvezza: metodi e prospettive diverse ex cathedra, ma il ragazzo va recuperato, almeno umanamente. E il registro sposa melodramma e rock, cercando nella musica il motore portante e l’ancora buona: gli studenti si esibiscono, Talarico suona la chitarra, mentre il sistema scuola si rassegna al De profundis. E, purtroppo, non sono solo canzonette: Jalongo scatta l’istantanea, sperando che non sia l’ultima di quel rullino chiamato istruzione.
Pessimista? Certo, ma con speranza, come sosteneva Orson Welles, perché il Diario di un maestro di De Seta qualcuno doveva pure aggiornarlo: ci pensa Jalongo, senza strappare le brutte pagine, piuttosto leggendole con la camera per allontanare, almeno in sala, lo spettro dello sfascio educativo. A leggere i giornali, si direbbe utopia, per cui è il caso di rispolverare il vecchio slogan de La scuola 1995 e distribuirlo all’uscita da Montecitorio: “Dedicato a chi non è mai stato il primo della classe…”.
Forse, sarebbe il caso di tradurlo anche in inglese, perché Waiting for Superman, già al festival di Roma e nella quindicina dei documentari in corsa per gli Academy Awards, non fa un ritratto diverso del sistema scolastico pubblico Usa. Dal regista premio Oscar di Una scomoda verità Davis Guggenheim, vengono a iosa intelligenti provocazioni: un esempio? Una detenzione media di quattro anni in una prigione di Pittsburgh costa allo Stato 128.000 dollari a carcerato: se la stessa cifra fosse stata spesa anni prima per iscrivere ogni detenuto a una scuola privata, sarebbero avanzati ancora 24mila dollari per il college. Non è tutto, anzi: sapete qual è l’unica alternativa negli Usa alla scuola pubblica degradata e agli infimi livelli di insegnamento (il sindacato insegnanti è una potenza…) se siete nati poveri o in un quartiere disgraziato? La lotteria, perché le scuole migliori di ogni distretto estraggono i bussolotti per accettare o meno nuovi studenti… Speriamo non lo senta la Gelmini, comunque, c’è bisogno di supereroi in cattedra: appunto, Waiting for Superman, sperando che parlino anche italiano e… pugliese: Scuola Media, documentario di Marco Santarelli, arriverà al 28° Festival di Torino (29 novembre – 5 dicembre), portando sotto la Mole l’ombra nefasta dell’ILVA e una scuola media del quartiere Paolo VI di Taranto. Per mostrare “senza enfasi né retorica quello che significa insegnare in una periferia del sud Italia”. Ripassata la lezione?