di Luigi Sabino*
“Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…”
Sono passati cinquant’anni da quando Sciascia immortalava con questo esempio la lenta risalita di Cosa Nostra lungo la penisola. Il “siciliano”, profondo conoscitore della sua terra e delle forze che in essa si muovevano, aveva capito prima di tutti che quegli “ometti” in coppola e lupara, stereotipo del mafioso, in realtà avevano messo già un piede in Parlamento e avevano iniziato a colonizzare quei territori che, per qualcuno, costituiscono la Padania.
Un primato, quello di Sciascia, che è bene ricordare, soprattutto se si considera che quando fu pubblicato il “Giorno della Civetta” (1961), il racconto denuncia in cui compare la “linea della palma”, il paese era ancora indeciso se la mafia fosse reale o frutto di leggende popolari.
Eppure, come rileva lo stesso Sciascia in una lettera del 1972, “a quel momento, sulla mafia esistevano inchieste e saggi sufficienti a dare al Governo e all’opinione pubblica nazionale la più precisa informazione”. Da “I mafiusi de la Vicaria”, commedia dialettale di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca alle memorie di Cesare Mori, il prefetto di ferro di epoca fascista, passando attraverso il saggio “Maffia”, dell’ex funzionario di Pubblica Sicurezza, Giuseppe Alongi.
Si sapeva tutto ma si finse di non sapere, lasciando che alla “teoria della palma” subentrasse la “pratica dello struzzo”.
Le conseguenze? Cosa Nostra crebbe, florida e potente, radicandosi non solo in Sicilia ma in ogni angolo della nazione, entrò nell’economia e nella politica, divenne l’Antistato. Per decenni fu lasciata pascere tranquilla, protetta da una forma di negazionismo paragonabile a quello di chi rifiuta l’Olocausto. I pochi che tentarono di combatterla furono spazzati via dalle cariche di tritolo o dalle raffiche di kalashnikov. Poi ci furono Capaci e via D’Amelio e il mondo cambiò.
In pochi anni i “fantasmi” di Corleone si materializzarono e conobbero il morso delle manette. Furono stanati in stamberghe da pastori o in residence lussuosi mentre i loro beni furono confiscati e i loro referenti politici condannati (perché, è sempre bene ricordarlo, prescrizione non è sinonimo di assoluzione). Finalmente disse qualcuno, troppo tardi disse qualcun altro. Da ogni parte del paese però tutti furono concordi nel dire mai più. Mai più mettere la testa sotto la sabbia, mai più “minimizzare” il fenomeno mafioso, qualunque sia la sua origine geografica.
Si ebbe la sensazione che effettivamente si fosse giunti a una svolta nella lotta alla criminalità organizzata, non solo di origine siciliana. Poi la sensazione svanì e rimase la consapevolezza che la determinazione con cui si affrontò la mafia era solo frutto di un momento, di una rabbia popolare che rischiava di travolgere tutto e tutti.
Così mentre i “siciliani” si riorganizzavano, applicando il vecchio detto “calati giunco che passa la piena”, in Campania e Calabria altri boss iniziavano ad affermarsi per la loro ferocia. In Campania, le bande di camorra, ormai affrancate dall’influenza dei siciliani, iniziarono a muoversi autonomamente sulla scena nazionale e internazionale. Dalla Calabria, le ‘ndrine partirono alla conquista del globo, dal Canada all’Australia, e iniziarono ad accumulare patrimoni tali da permettersi di acquistare quote della russa Gazprom. Anche per loro, com’era accaduto anni prima per la mafia, fortuna fu che la classe politica preferì fare lo struzzo.
Basti pensare che la prima relazione della Commissione Antimafia incentrata sulla camorra risale al 1993 mentre della ‘ndrangheta si è incominciato a parlare solo negli ultimi 5 anni grazie al lavoro scrupoloso della magistratura e di alcuni giornalisti.
Negli ultimi tempi poi il “negazionismo” di Stato sembra vivere la sua età dell’oro grazie a una precisa parte politica che è restia ad ammettere chela criminalità organizzata ha messo radici anche nella sua “patria immaginaria”.
Eppure migliaia di pagine, redatte dalle Procure di tutto il paese, hanno dimostrato come le mafie nostrane siano proliferate in ogni continente.
Difficile quindi credere che realtà come Parma, città d’origine dello “sciasciano” capitano Bellodi, siano immuni a camorra o ‘ndrangheta. Così come appare difficile non considerare l’ipotesi, rigettata dal ministro Maroni, che “alcuni” esponenti del suo partito possano cadere in tentazione e accettare amicizie pericolose.
Su questo punto è opportuno essere chiari. Il fatto che un unico esponente di un partito possa allacciare legami con la criminalità organizzata non vuol dire che l’intera formazione politica sia invischiata con le mafie ma solo che quel singolo è complice di criminali. Una diversa lettura dei fatti è solo banale generalizzazione analoga a quella di un leghista che definisce tutti i napoletani, camorristi.
E’ in momenti come questo, dove la polemica e il protagonismo hanno la meglio sul reale significato di “antimafia”, che si avverte maggiormente la mancanza della sensibilità di Sciascia.