di Luigi Sabino
L’hanno preso. Dopo quasi 15 anni di latitanza, Antonio Iovine, “primula rossa” del clan dei Casalesi è finito nelle mani delle forze dell’ordine. L’hanno trovato, dopo averlo cercato per mezzo mondo, mentre si nascondeva nell’abitazione di un “anonimo” muratore di Casal di Principe, uno dei tanti che in questi anni ha offerto ospitalità e ausilio al boss in fuga. Quando gli uomini della Squadra Mobile di Napoli, poco prima delle 16, hanno fatto irruzione nella palazzina abusiva di due piani, Iovine non ha opposto resistenza, salvo un timido tentativo di dileguarsi attraverso i tetti. Un ultimo tentativo di sottrarsi alle manette che però è stato stroncato sul nascere dagli agenti. La sua resa l’ha firmata pochi secondi dopo, quando resosi conto di non avere nessuna via di fuga, si lasciava riconoscere dagli agenti pronunciando un laconico “Sono io”.
Ma chi è realmente Antonio Iovine? Chi è questo boss che per oltre un decennio è riuscito a sottrarsi a magistratura e forze dell’ordine? Di lui, fino al momento della cattura, si aveva solo una foto in bianco e nero, scattata prima di quel fatidico 5 dicembre 1995, quando per sfuggire alle condanne inflitte dal processo “Spartacus”, decise di darsi alla macchia. Di lui, da quel giorno, si seppe poco o nulla, protetto da una rete di amici e fiancheggiatori che ne coprivano le tracce dopo ogni passaggio. Aveva appena 31 anni quando iniziò la sua vita da latitante, ma per gli addetti ai lavori era già uno dei capi del cartello casalese, la potente organizzazione camorristica che dalla provincia di Caserta stava tracimando in diverse regioni italiane. La sua carriera criminale, Iovine, l’aveva iniziata quando non era ancora ventenne sotto l’ala protettrice di quello che, ancora oggi, è considerato come il padre spirituale del clan, Antonio Bardellino. Fu Bardellino, originario di san Cipriano D’Aversa, lo stesso paese di Iovine, a trasformare un gruppo di comuni delinquenti in una cosca camorristica in grado di respingere l’avanzata della NCO di Raffaele Cutolo. Fu sempre Bardellino, con l’aiuto di un altro “grande vecchio” della camorra, Carmine Alfieri, a spezzare il potere dei Nuvoletta di Marano, indicati come i referenti di Cosa Nostra in Campania. Proprio a quest’ultima guerra di camorra sarebbe legata l’origine del soprannome di Antonio Iovine ossia “o’ ninno”, il ragazzino.
È una storia che assume i contorni della leggenda perché, nonostante le testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia come Carmine Schiavone, non ci sono riscontri ufficiali sulla sua veridicità ma che è bene citare per far comprendere quale sia lo spessore criminale del boss. Secondo molti Iovine avrebbe conquistato il suo “nomignolo” sul campo quando, non ancora ventenne, partecipò all’assalto a Poggio Vallesana, residenza della famiglia Nuvoletta. Un “onore” condiviso con boss del calibro di Pasquale Galasso, Angelo Moccia e Ferdinando Cesarano. La scalata nella gerarchia del clan da parte di “o’ ninno” cominciò quando decise di dare il suo appoggio al “colpo di stato” che portò all’uccisione dello stesso Bardellino e di suo nipote, Paride Salzillo. Era la rivolta dei “guaglioni”, scontenti di come il boss, ormai trasferitosi in Brasile, gestiva gli introiti del clan. A volere la morte di Bardellino erano stati Vincenzo De Falco, Mario Iovine e, soprattutto, Francesco Schiavone detto “Sandokan” a cui Iovine era, ed è, legatissimo. Un legame che non s’incrinò neppure quando, alcuni anni dopo, iniziò la lotta per il potere all’interno del cartello casalese. Una lunga serie di scontri che per poco non costò la vita allo stesso Iovine. Era il 1991, quando durante una spedizione organizzata per eliminare un rivale, s’imbatté in una pattuglia dei carabinieri. Il conflitto a fuoco fu violentissimo e Iovine, ferito al petto, fu arrestato. Aveva 27 anni e da allora quelle ferite non hanno mai smesso di dargli fastidio al punto che un infermiere dell’ospedale “Moscati” era sempre disponibile, durante gli anni della latitanza che seguirono, ad alleviare il dolore.
In carcere il boss non ci rimase a lungo e quando le forze dell’ordine si recarono presso la sua abitazione per eseguire quanto stabilito dalla sentenza “Spartacus”, vi trovarono solo la moglie, Enrichetta Avallone. Amante dei gioielli e degli abiti lussuosi, per gli inquirenti, è sempre stata lei la più fidata sodale di “o’ ninno” di cui ha curato la latitanza e di cui è diventata ambasciatrice presso gli affiliati. Una “collaborazione” durata fino al gennaio del 2009 quando la donna fu arrestata in un appartamento di Trentola Ducenta, comune del casertano. In quell’occasione però “o’ninno” riuscì a scappare attraverso una botola poco prima dell’irruzione degli agenti. Non era la prima volta. Qualche anno prima Iovine evitò la cattura per semplice fortuna. Fermato da una pattuglia dei Carabinieri a Roma, riuscì a evitare le manette perché i militari lo riconobbero solo quando, tornati in caserma, videro la sua foto tra quelle dei ricercati.
Nella capitale, il boss c’era andato per curare i suoi affari. Roma, infatti, era diventata il centro delle sue attività economiche al punto da investire denaro nell’acquisto del “Gilda”, la famosa discoteca capitolina, e de “Il Destriero”, rinomato ristorante di pesce e luogo d’incontro per politici, affaristi ed esponenti della criminalità. Suo referente era un altro Antonio Iovine, cugino omonimo, sopranominato “Rififì” cui il boss aveva affidato il compito di investire il denaro sporco dell’organizzazione e di gestire il giro del gioco clandestino e delle scommesse online. Un impero di decine di milioni di euro come descritto nelle oltre 1000 pagine dell’ordinanza “Galassia” che nel 2008 portò alla cattura di oltre 50 affiliati. L’epilogo arriverà solo due anni dopo, in una villetta di Casal di Principe.