Se la ricerca pubblica italiana se la passa male, anche per quella privata il momento non è propizio. Lo dimostra una vicenda abruzzese: l’ennesima eccellenza del nostro paese che rischia di scomparire. Non per mano italiana, ma a opera della multinazionale Procter & Gamble.
La P&G è presente nel nostro paese dal 1956 con la sua sterminata gamma di prodotti (Dash, Pampers, Gillette, Pringles, tanto per nominarne alcuni) che vanno dall’alimentare al farmaceutico. Oltre ai vari siti produttivi, ci sono due centri di ricerca: uno a San Giovanni Teatino (Chieti), che occupa 150 persone, l’altro a Pomezia (Roma) che conta 50 addetti.
Da sempre il colosso americano ha fatto delle attività di ricerca un vanto, tanto da investire annualmente in questo campo una cifra superiore ai due miliardi di dollari. E, come conferma Paola Aruta, responsabile delle relazioni esterne di P&G, non c’è alcuna intenzione di modificare tale impostazione.
Peccato però che il centro abruzzese stia rischiando di chiudere. Come spiegano alcuni membri dello staff di ricercatori, un anno fa la corporation ha annunciato un programma di ristrutturazione del comparto ricerca a livello mondiale. La multinazionale insomma vuole aprire ai nuovi mercati come quelli dell’estremo Oriente. Non a caso, il centro di ricerca di Pechino, già esistente, è stato ulteriormente ampliato e si sta progettando l’apertura di un altro centro a Singapore.
“Fa parte della politica aziendale della P&G”, spiegano i dipendenti del centro abruzzese che sostengono come la multinazionale voglia privilegiare i grandi hub a scapito dei piccoli centri di ricerca. Come quello abruzzese.
È ovvio che un sito piccolo come quello di San Giovanni Teatino – certo non un hub – e che impiega lavoratori a costi alti per l’azienda è uno dei primi che rischia la chiusura.
La situazione del laboratorio di Pomezia è leggermente diversa, poiché il comparto della ricerca convive negli stessi spazi di uno stabilimento di produzione di detersivi. Ci sono poi molti altri segnali. Mentre in Germania e in Belgio si continua a investire e ad assumere, in Abruzzo è tutto fermo da anni.
Più recentemente alcune indiscrezioni di stampa hanno riportato che per rispondere alle fibrillazioni dei dipendenti è stata improvvisata una riunione con il direttore delle risorse umane di P&G Italia. Il messaggio è stato: “Stiamo decidendo, ma state tranquilli perché la nostra politica è sempre quella del ricollocamento”. Ma cosa vuol dire ricollocamento? Le competenze dei ricercatori di San Giovanni Teatino sono estremamente specifiche. Il centro si occupa delle tecnologie assorbenti per il marchio Lines ed è l’unico di tutta la P&G. Essere ricollocati significherebbe allora lasciare l’Italia per un eventuale centro con analoghe funzioni all’estero (potrebbe essere ampliato quello esistente in Germania), oppure appendere al chiodo gli strumenti della ricerca e andare a svolgere mansioni totalmente diverse. Altrimenti accettare una buona uscita.
Come riportano alcune fonti interne all’azienda, lo scorso marzo è iniziata la ristrutturazione del settore in America, a luglio è stata la volta del Giappone ed era in programma per settembre quella del Vecchio continente. Ma a settembre è stato tutto rinviato di tre mesi.
“Non vogliamo mandare a casa nessuno – dice Aruta – ma se si sceglie di lavorare in una multinazionale, bisogna stare alle regole. E se l’azienda decide di spostare la ricerca, bisogna adeguarsi. Bisogna fidarsi. Ci si sposta laddove il lavoro si sposta”.
Ma che sarà di questa esperienza se il centro sarà chiuso? E che prospettiva hanno i ricercatori se non quella di essere altri cervelli in fuga (a meno che non vogliano cambiare lavoro)?
E soprattutto, nei piani di ristrutturazione perché le multinazionali scelgono sempre di sacrificare l’Italia?
Secondo l’Airi, l’Associazione italiana per la ricerca industriale, l’Italia non attrae gli investimenti stranieri e molte delle aziende presenti sul nostro territorio decidono di andarsene. Troppa burocrazia e poche agevolazioni finanziarie.
Insomma i nostri ricercatori sono degli ottimi professionisti, sono le condizioni “ambientali” che spingono le corporation ad abbandonare l’Italia.
E la storia del centro abruzzese è la dimostrazione. Solo quest’anno ha ricevuto il “Premio dei premi” per l’innovazione dal Presidente della Repubblica per la scoperta di una nuova tecnologia. Al quale si aggiungono i riconoscimenti da parte della stessa Procter & Gamble.
Centocinquanta ricercatori possono sembrare pochi, ma in Italia un centro di ricerca di queste dimensioni è una realtà importante. Il totale degli addetti nel settore chimico privato è infatti di poco meno di 2000 lavoratori: ciò vuol dire che Procter & Gamble con Pomezia e San Giovanni Teatino rappresenta, da sola, circa il 10% della ricerca chimica in Italia.
Per il momento nessuna decisione è stata ancora presa sui centri italiani. Gli scenari sono aperti. Ma è chiaro che l’interesse della P&G è sì quello di conservare i ricercatori, ma non necessariamente in Italia. Come dice la responsabile delle relazioni esterne, “mi auguro che i cervelli italiani restino in Italia, ma spero, prima di tutto, che restino cervelli”. Il problema non sono i cervelli, infatti. Il problema resta il sistema Italia.
Di Benedetta Fallucchi