Dal libro “L’Intoccabile. Berlusconi e Cosa Nostra” di Leo Sisti e Peter Gomez (Ed. Kaos, 1997)
pagg. 68 – 76 (III capitolo)
A posteriori, lo schema che si presenta agli occhi degli investigatori è piuttosto semplice. Dell’Utri, attraverso il suo amico Gaetano Cinà imparentato con Mimmo Teresi, si avvicina alla famiglia di Santa Maria del Gesù. Un legame poi rafforzato da Vittorio Mangano che, pur essendo un uomo d’onore del clan di Porta Nuova, è in rapporti strettissimi con Stefano Bontate. Al tempo stesso, sono fortissime anche le relazioni con i mafiosi vicini ai corleonesi. In Lombardia infatti Luciano Liggio, arrestato il 16 maggio 1974 in via Ripamonti, ha fatto proseliti, e dalla sua parte stanno anche personaggi come i fratelli Giovanbattista e Ignazio Pullarà i quali, in teoria, dipendono da Bontate.
Almeno fino all’esplodere della seconda guerra di mafia, questa politica del “doppio binario’’ non crea problemi all’attività di Berlusconi, il quale – secondo i collaboratori di giustizia – investe i capitali del gruppo di Bontate e periodicamente manda denaro in Sicilia. Poche decine di milioni per volta che, visti in questo contesto, hanno tutta l’aria di essere il periodico pagamento di interessi su un debito contratto con Cosa nostra.
Orientarsi tra i protagonisti e i comprimari di questo circuito criminale non è semplice. Oltre a quelle dei fratelli Grado emerge però, tra le altre, la figura di un ex contrabbandiere di sigarette che a quell’epoca faceva coppia fissa con Vittorio Mangano: Francesco Mafara.
Il primo ad associare il nome di Mafara a quello di Dell’Utri è il pentito Totò Cancemi. L’ex componente della Cupola sostiene infatti di avere incontrato Mafara prima del 1975 assieme a Mangano in un bar di Palermo e di aver saputo che anche lui frequentava abitualmente la tenuta berlusconiana di Arcore. Ma Cancemi, a distanza di tanti anni, non ne ricorda esattamente il cognome, e almeno nei primi verbali lo storpia in “Mafaro’’. Poi si corregge, e sottolinea come il contrabbandiere, pur essendo un soldato di Santa Maria del Gesù, fosse legatissimo al capo della famiglia di Malaspina, nella quale militava Cinà.
Cancemi apre così la strada a quella che sarà la contestazione più grave rivolta dai magistrati di Palermo a Dell’Utri: il riciclaggio di 70 miliardi (l’equivalente di circa 280 miliardi ai valori odierni), tutto denaro proveniente dal traffico di eroina.
A parlare questa volta non è un pentito di mafia, ma un uomo legato alla camorra. Si chiama Pietro Cozzolino. Suo fratello Riccardo, fin dagli anni Sessanta, ha contrabbandato di tutto stringendo un patto di ferro prima con il clan dei marsigliesi e poi con Cosa nostra. Piano piano ha salito tutti gli scalini della gerarchia criminale arrivando a esportare droga negli Stati Uniti.
I due Cozzolino lavorano con Mafara. Sul finire degli anni Settanta, Riccardo e Franco, ogni venerdì, si ritrovano a Milano tra i marmi e i broccati dell’Hotel Plaza per trattare le partite di morfina base. Una scelta non certo casuale, la loro: il grande albergo di Piazza Diaz è di proprietà di Antonio Virgilio, il quale dispone che i narcotrafficanti non vengano registrati dalla reception.
Grazie a questa fitta rete di complicità e amicizie, Mafara riesce a raffinare, in assoluta tranquillità, 50 chili di eroina alla settimana in un laboratorio impiantato in Sicilia. Al trasporto nell’isola ci pensano i napoletani, a quello negli Stati Uniti i palermitani.
Racconta Pietro Cozzolino: «Eravamo io e mio fratello a rifornire di morfina base il gruppo di Stefano Bontate. Nel 1979 avevamo già fatto molti soldi e così sorse il problema di come investire circa 70 miliardi provento di questo traffico. Una parte, circa 25 miliardi, spettava infatti a me e a mio fratello Riccardo. Fu lui, allora, che raggiunse un accordo con Mafara e Bontate… decidendo che i soldi sarebbero stati affidati a Vittorio Mangano e a Marcello Dell’Utri, cioè il dirigente Fininvest. Io non partecipai a queste discussioni. Fu Riccardo a riferirmi quanto era stato deciso spiegandomi che era conveniente affidare questi miliardi ai gruppi mafiosi e-mergenti di Milano. Più volte, del resto, mio fratello mi aveva detto che Dell’Utri gestiva i soldi di Bontate. Io Mangano lo conoscevo già, visto che proprio quell’anno lo avevo incontrato a Palermo con Mafara in una cava di sua proprietà. Non conoscevo invece Dell’Utri e non lo ho mai visto di persona. Non so che fine abbiano fatto quei soldi perché io e Riccardo fummo arrestati quasi subito. Da allora ho sempre avuto l’assillo di rientrare in possesso del denaro che ci spettava e di vedere quali frutti aveva dato».
Pietro Cozzolino è un uomo d’azione. Le questioni finanziarie le ha sempre demandate a Riccardo. E per questo nel 1990, ottenuta la semi-libertà, decide di risolvere il problema a modo suo: «Volevo andare a Milano e uccidere Dell’Utri perché, pur non riuscendo a ottenere quanto mi spettava, volevo far capire ai siciliani che non potevano fare quello che volevano. Per questo ero intenzionato a eliminare il loro punto di riferimento nella gestione dei capitali illeciti».
Secondo altri collaboratori di giustizia, la vicenda dei 70 miliardi scomparsi potrebbe però essere il frutto di un equivoco. Se – come raccontano Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia – il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi e quello della Banca Privata Michele Sindona (“fratelli’’ di Berlusconi nella P2) si sono dimostrati troppo disinvolti nella gestione del denaro loro affidato dalla mafia, lo stesso non può dirsi di Dell’Utri. All’interno di Cosa nostra, anzi, l’abilità e l’accortezza del braccio destro di Berlusconi è sempre stata molto apprezzata. Ricorda Gaspare Mutolo: «Mentre eravamo in carcere assieme, Vittorio Mangano mi disse che alcune somme provenienti da Pippo Calò, Salvatore Riina, Ugo Martello e Pippo Bono, erano state investite a Milano da parte di Dell’Utri, che veniva considerato una persona seria, cioè affidabile ai fini della nostra organizzazione. Sempre Mangano mi disse che in passato Dell’Utri era stato vicino a Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti».
Il caso dei 70 miliardi scomparsi potrebbe insomma anche essere un semplice incidente di percorso. È vero? È falso? Solo Bontate può risolvere l’enigma: ma il Principe di Villagrazia è stato ucciso nel 1981 e si è portato nella tomba la chiave per penetrare nei forzieri della sua famiglia. Dirà Tommaso Buscetta al giudice Giovanni Falcone: «I segreti di Sindona? Una piuma al confronto di quelli di Bontate».
Se Cozzolino non mente, non si può neppure escludere che con la morte di Bontate siano rimasti in giro capitali ormai senza più padroni. Spiegherà infatti a questo proposito il pentito Gioacchino Pennino: «L’enorme patrimonio accumulato da Bontate e dal suo gruppo è ipotizzabile che sia rimasto nelle mani di chi lo aveva gestito e perciò, secondo quanto io ho appreso dall’avvocato Gaetano Zarcone, nelle mani di Berlusconi e dei fratelli Dell’Utri».
Le dichiarazioni di Cozzolino, Mutolo e Pennino non sono certo sorprendenti. In decine di altre inchieste, infatti, è già emerso come negli anni Settanta il ricorso ai capitali sporchi di Cosa nostra fosse ritenuto da moltissimi imprenditori una valida alternativa al sistema creditizio bancario. A confermarlo, meglio di altri, è proprio un socio di Silvio Berlusconi in alcune speculazioni immobiliari in Sardegna: il faccendiere sardo Flavio Carboni.
«Oggi senz’altro si può e ci si deve porre il problema della provenienza dei capitali che alimentano il settore del “finanziamento privato’’», ha spiegato Carboni ai magistrati romani titolari dell’inchiesta sulla banda della Magliana, «ma allora tale problema neppure si prospettava. “Usuraio’’ era considerato soltanto chi erogava prestiti a persone bisognose, non chi “vendeva soldi’’ a imprenditori i quali, come nel mio caso ma anche in quello di moltissime altre persone, ricorrevano ai prestiti per finanziare operazioni speculative. Certo il “finanziatore privato’’ teneva in sudditanza chi faceva ricorso a lui, magari si tratteneva i titoli già onorati, esercitava le più svariate forme di pressione e di vessazione per rientrare nelle sue spettanze, ma se capitava che il “finanziatore privato’’ denunciasse per truffa il debitore, di certo non accadeva il contrario. Debbo comunque aggiungere che il mio rapporto con questi finanziatori non fu mai particolarmente traumatico. Fermo restando che non potevo sottrarmi alla restituzione di tutto il capitale in denaro, per quanto concerne gli interessi, di soli-to, dopo averne corrisposta una parte in denaro, bastava avere l’accortezza di arrivare al protesto, dimostrando così una situazione d’illiquidità. Quando ciò avveniva gli stessi finanziatori accettavano di ricevere la restante parte del credito in natura: in quote di società immobiliari o proprietà immobiliari, anche perché così si sentivano imprenditori. Io riuscivo così a ottenere un duplice vantaggio: estinguevo i miei debiti e vendevo anche quando il mercato immobiliare era fermo».
In pratica, se oggi i soldi non puzzano, negli anni Settanta addirittura profumavano. A Palermo lo confermava anche il vicedirettore generale del Banco di Sicilia Gerlando Miccichè (padre di Gianfranco, il parlamentare responsabile di Forza Italia in Sicilia). Dopo la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso nel 1982, Gerlando Miccichè è protagonista di un memorabile intervento televisivo: le banche, dice, non si pongono mai domande su come i propri clienti abbiano fatto fortuna. Una presa di posizione che gli costerà la candidatura alla poltrona di numero uno dell’istituto, ma che è importante per comprendere la mentalità e il tipo di rapporti intrattenuti con Cosa nostra da una parte della borghesia palermitana dell’epoca.
In questo contesto si collocano anche le parole di quei pentiti che non accusano il braccio destro di Berlusconi solo di money laundering, ma rivelano anche un suo presunto coinvolgimento in traffici di sostanze stupefacenti. Lo fa, in maniera implicita, Cancemi, l’amico d’infanzia di Vittorio Mangano.E lo fa, esplicitamente, Vincenzo Scarantino, un carrozziere vicino alla famiglia di Santa Maria del Gesù arrestato per la strage di via D’Amelio.
«Io non so che tipo d’interessi, oltre ai cavalli, potessero legare Dell’Utri a Mangano, ma sono certo che c’è qualcosa di più», dichiara l’ex reggente di Porta Nuova. «Vittorio infatti con me non è mai sceso in particolari. Posso solo sottolineare un fatto: Arcore era allora frequentata con continuità da persone coinvolte in un grosso traffico di stupefacenti. Ne devo dedurre quindi che questo tipo di contatti avuti da Dell’Utri non erano finalizzati alla semplice amicizia, o limitati all’ospitalità di queste persone, ma ad altro tipo di affari». Quelle di Cancemi sono solo delle ipotesi. Che ritorneranno d’attualità con la confessione di Vincenzo Scarantino.
Cognato di Salvatore Profeta, penultimo capo della famiglia di Santa Maria del Gesù, Scarantino il 24 giugno 1994 accetta di parlare con i magistrati di Caltanissetta della strage di via D’Amelio. È stato lui a ordinare il furto della 126 che, imbottita di tritolo, ha trasformato in un inferno un pezzo di Palermo uccidendo, insieme al giudice Borsellino e alla sua scorta, la speranza dei molti siciliani onesti.
Piegato dal regime carcerario speciale previsto dall’articolo 41-bis – norma che molti esponenti del partito-Fininvest Forza Italia proprio in quei giorni vorrebbero cancellare – Scarantino sembra un fiume in piena. Il suo primo interrogatorio da pentito si trasforma in un lungo sfogo che, davanti a un registratore, lascia sconcertati il procuratore Giovanni Tinebra e il sostituto Ilda Boccassini.
Il cognato di Profeta racconta: «Io, ancor prima di diventare uomo d’onore, ero a conoscenza di cose segrete che mi diceva Ignazio Pullarà [uomo d’onore di Santa Maria del Gesù nei primi anni Settanta residente a Milano, ndr] che con me aveva confidenza perché lo rifornivo di armi… Lui parlava tranquillamente e diceva: “Il Canale 5 glielo ho fatto comperare io. Io gliel’ho fatto comperare a Silvio Berlusconi… Gli mandavo 2 chili di cocaina ogni 20 giorni, ogni mese. E ogni anno per le feste, manda 50 milioni questo Silvio Berlusconi’’. Questo mi diceva Pullarà».
Boccassini e Tinebra tentano di interrompere il racconto: ai due magistrati interessano i particolari della strage e l’attendibilità di Scarantino – che ha appena accettato di collaborare con la giustizia – è ancora tutta da verificare. Ma il cognato di Profeta insiste: «Una volta ero a parlare con Ignazio Pullarà, però dottoressa non voglio che mi diciate di lasciar perdere questi discorsi; prima che Berlusconi comprasse Canale 5, Ignazio Pullarà gli mandava due chili di cocaina. Berlusconi, Silvio Berlusconi che lo conosceva a Milano!». Secondo Scarantino, dunque, Berlusconi era amico di Pullarà. Ma conosceva anche Luciano Liggio «che andava a Milano e Berlusconi mandava 50 milioni l’anno alla famiglia di Santa Maria del Gesù».
Ritenuto affidabile dopo sei mesi di interrogatori a Caltanissetta, il pentito Scarantino viene tuttavia considerato con sospetto dai magistrati di Palermo: ha infatti descritto la propria affiliazione a Cosa nostra come una bicchierata tra ami-ci ed è caduto in contraddizione, su alcuni dettagli della riunione che ha preceduto la strage di via D’Amelio, proprio con Cancemi. Secondo alcuni magistrati, Scarantino, pur di acquisire meriti agli occhi della giustizia, riferisce spesso – facendoli propri – racconti che ha ascoltato da suo cognato Salvatore Profeta, lui sì capobastone e uomo d’onore.
Ma a parte il riferimento alle partite di cocaina, le parole di Scarantino coincidono con quanto detto da altri collaboratori sicuramente affidabili. Del denaro versato da Berlusconi alla famiglia di Santa Maria del Gesù hanno parlato Francesco Di Carlo, Salvatore Cucuzza, Cancemi e via via tutti i pentiti che hanno affrontato la questione dei rapporti tra mafia e Fininvest.
Quei soldi erano un regalo, una tangente o addirittura, come sembra sostenere Scarantino, il pagamento di partite di droga? Rispondere a questa scabrosa domanda è impossibile. Così come è impossibile stabilire con certezza se davvero in occasione delle festività natalizie Silvio Berlusconi fosse solito inviare in dono alla mafia un contributo in denaro.
Un’intercettazione telefonica del 25 dicembre 1986 prova comunque che tra gli uomini d’onore palermitani c’era chi si preoccupava di dimostrare concretamente a Berlusconi il proprio affetto e la propria stima regalandogli per Natale dolci da Guinness dei primati (una cassata siciliana da 11 chili e 800 grammi). Alle 19.38 di quel giorno i carabinieri di Milano ascoltano infatti Gaetano Cinà, il presunto soldato della famiglia mafiosa di Malaspina imparentato con Mimmo Teresi, parlare al telefono con Alberto Dell’Utri, il fratello gemello di Marcello, funzionario di Publitalia a Roma. La conversazione è illuminante. Ecco i passi più rilevanti:
Alberto: «Pronto!».
Cinà: «Oh, ingegnere!».
Alberto: «Tanino, ti stavo chiamando per ringraziarti. Ho trovato magnifica la cassata!».
Cinà: «È buona, è arrivata bene?».
Alberto: «Benissimo».
Cinà: «Comunque, io ti ho telefonato per farti gli auguri».
Alberto: «Grazie, Tanino. Io ricambio con grande affetto».
Cinà: «Sono giorni che uno si deve ricordare degli amici fraterni».
Alberto: «Ma io me lo ricordo tutti i giorni!».
Cinà: «Ti ricordi di me quando sei a cavallo, che non fai niente!». […]
Cinà: «Sono sceso giù per telefonare a te e a Marcello… Lui però stava riposando. Mi ha detto Miranda [Ratti, la moglie di Marcello Dell’Utri, ndr] “Che fo, lo sveglio?’’, le dissi di non svegliarlo, perché poi deve fare nottata! E le ho domandato se l’ha ricevuta lui, perché non ne so niente».
Alberto: «Non lo hai saputo?».
Cinà: «No».
Alberto: «Ma tu pensa!».
Cinà: «Ma non gli dire: che stronzi sono? Perché… [risate fragorose] Maria Pia [La Malfa, la moglie di Alberto Dell’Utri, ndr] come sta?». […]
Cinà: «La cassata ce l’hai sotto chiave, no?».
Alberto: «Sotto controllo». […]
Cinà: «Lo sai quanto pesava la cassata del Cavaliere?».
Alberto: «No, quanto pesava, quattro chili?».
Cinà: «Si, va bè! Undici chili e ottocento!».
Alberto: «Minchione! E che gli arrivò, un camion gli arrivò?».
Cinà: «Certo, ho dovuto far fare una cassa dal falegname, altrimenti si rompeva!».
Alberto: «Certo!».
Cinà: «Ecco che cosa devo chiedere a Marcello, ma ne sa niente?».
Alberto: «Anche la curiosità di sapere se è arrivata sana».
Cinà: «Certo!».
Alberto: «È logico perché quella è bella quando è sana!».
Cinà: «Ma ci ho fatto fare un… il biscione che cosa è? Il biscione è… solo Canale 5».
Alberto: «Ah, tu ci hai fatto fare il biscione?».
Cinà: «No, Canale 5 e la scritta Canale 5, in numero e in lettere».
Alberto: «Ah bella». […]
Cinà: «Che poi, questo Natale dove lo fa questo? A casa?».
Alberto: «A casa, ad Arcore. Tu gliela hai mandata là?».
Cinà: «No, la ritirava, come si chiama … [nome incompr.]…».
Alberto: «Ah, l’autista?».
Cinà: «Sì. Però ce n’è un’altra piccola. Siccome la cassa è là e l’altra piccola per la…».
Alberto: «Ah, sì, sì».
Cinà: «Perché c’è quella che si fa là e quella che si fa là! Perciò, chissà, una la mattina e una la sera, non credo».
Alberto: «Ma io penso che tutte e due ad Arcore sono andate a finire, io penso».
Cinà: «Tu dici?».
Alberto: «Sì, sì».
Cinà: «No, perché siccome forse ha i suoi figli grandi, lui, ad Arcore?».
Alberto: «Sì, sì».
Cinà: «E va bene, e quelli piccoli dove li mette? Perciò c’era quella piccola! Hai capito com’è il discorso?».