La salvezza del Lingotto sta nella fusione con Chrysler e nella diversificazione del mercato. Lo scrive l’Economist prefigurando per la casa torinese un futuro sempre più lontano dalla Penisola. Con buona pace dei lavoratori italiani
La Fiat ha già acquistato il 20% del gruppo Chrysler ma le quote sono destinate ad aumentare fino al 35% aprendo la strada, in futuro, alla definitiva fusione. L’operazione comporta notevoli rischi anche a fronte degli elevati costi di ristrutturazione dei conti della casa americana (che sui 7 miliardi di dollari ottenuti in prestito dai governi di Usa e Canada paga interessi del 14% e del 20%), ma l’aggregazione potrebbe anche permettere alle due aziende di condividere la tecnologia e di ottenere quelle economie di scala capaci di permettere alla nuova creatura di rivaleggiare ad armi pari con i colossi del settore a cominciare da Volkswagen e Toyota. Una strada difficile, ma anche l’unica percorribile di fronte all’alternativa di una presenza eccessivamente concentrata su un mercato italiano “piccolo e poco competitivo per garantire una sopravvivenza a lungo termine”.
Finora la casa torinese sembra chiamata dunque a due sfide fondamentali. In primo luogo occorrerà non ripetere gli errori fatti in passato dalla Daimler che alla fine degli anni ’90 acquisì la Chrysler senza tuttavia riuscire a rilanciarla sul mercato. Il ritiro della società tedesca e la successiva cessione dell’azienda americana alla società di private equity Cerberus aprì la strada al fallimento del costruttore di Detroit, salvato all’ultimo momento dall’operazione Fiat con la sponsorizzazione di Washington. In seconda istanza, il Lingotto dovrà riuscire a imporsi su quel mercato americano abbandonato 27 anni or sono sotto la spinta del rifiuto espresso dai consumatori per la scarsa qualità delle vetture (l’acronimo Fiat, ricorda il settimanale britannico, fu ironicamente reinterpretato come “Fix it again Tony” – “aggiustala ancora una volta Tony” – per evidenziare i diffusi difetti dei veicoli).
In caso di riuscita le prospettive di successo sarebbero notevoli. Ma il trionfo dell’operazione potrebbe generare costi sociali notevolissimi per i lavoratori italiani. Secondo l’Economist, rivista tradizionalmente in linea con le dottrine di libero mercato, le perplessità già espresse da Marchionne sulla redditività delle operazioni condotte in Italia potrebbero tradursi in un progressivo abbandono degli impianti del Paese. “E’ facile immaginare – sottolinea il settimanale – che la Fiat possa lasciare appassire i propri impianti (in Italia – ndr) iniettando nuovi investimenti nei Paesi caratterizzati da una crescita delle vendite e da una produttività più alta”.
Le aree di interesse, cifre alla mano, sono facili da individuare. “In Italia – prosegue l’Economist – , 22 mila lavoratori distribuiti su cinque fabbriche producono ogni anno 650 mila automobili. Nella principale installazione Fiat in Brasile, appena 9.400 dipendenti ne realizzano 750 mila. L’impianto polacco fa ancora meglio: 6.100 lavoratori per 600 mila vetture”. Pur avendo recentemente negato l’intenzione di abbandonare la Penisola, Marchionne, conclude il settimanale, potrebbe sperimentare presto il suo “momento tatcheriano” decidendo di reagire con le cattive all’opposizione della Cgil, il sindacato che più di ogni altro ha comprensibilmente espresso contrarietà alle richieste di flessibilità sull’orario e gli accordi salariali.