Prima persona singolare. Per inabissarsi meglio nella mente di un assassino. Un capolavoro, L’assassino che è in me (1952) di Jim Thompson, romanzo portato sul grande schermo da Michael Winterbottom (e nel 1976 da Burt Kennedy), che ne lascia intatto il titolo originale. The killer inside me ne smarrisce totalmente l’essenza. Un’occasione tristemente mancata. Ottimo cast, bel regista, un immaginario forte di riferimento (la provincia texana degli anni ’50) e una pietra miliare della letteratura noir alle spalle: sul piatto c’era tutto.
Sarà per questo che The killer inside me è tanto tanto tanto deludente. Jim Thompson non trova qui né merito, nè giustizia, né sagace tradimento. Se il lettore viene lentamente risucchiato dalla follia di Lou Ford, in un racconto in prima persona a dir poco perturbante, la voce narrante del film è il classico banale stratagemma per “spiegare” quel che immagini e sceneggiatura riescono a mala pena a mettere a fuoco. Lou, vicesceriffo di una cittadina del Texas non può fare a meno di uccidere ed è prigioniero di un passato da cui non può evadere. Il connubio tra destino e violenza nello sconcertante romanzo avvinghia il lettore, spingendolo con maestria tra le braccia dei luoghi più oscuri del protagonista e a identificarsi con lui.
Nel film questa identificazione non scatta mai, lasciando un senso di distacco e noia: la mera messa in scena della trama non è sufficiente. Complici una sceneggiatura piatta e una regia senza idee (annotazione a latere: che regista sorprendente, discontinuo e affascinante è Winterbottom, che passa da The Shock doctrine a Genova, da Cose di questo mondo a A mighty heart lasciandoci spesso a bocca asciutta, talvolta meravigliati, sempre depistati?) che affidano la spiegazione psicologica, da piccolo manuale freudiano, a flashback di sottomissione femminile e ricordi di un’infanzia di abusi.
Nulla porta lo spettatore nella testa di Ford (il pur sempre bravo Casey Affleck), che si innamora della prostituta Joyce (la bellissima Jessica Alba) ma la uccide. Gli eventi sono solo messi in fila con pedante sciatteria e certe scelte sfiorano il ridicolo (la sculacciata elevata a simbolo sadomasochista, francamente, è troppo). Di quel Texas, frontiera psichica di un paese e di tanti personaggi della letteratura e del cinema, resta poi solo l’impressione di un déjà vu posticcio.
Eppure quel luogo è l’habitat in cui nasce, si adatta e prolifera la natura bestiale di Lou e degli States, predatori “per bene”, patriottici servitori di un’ineluttabile congenita violenza. Lou Ford è un bipolare con un piede attaccato da una parte e uno dall’altra di un confine invisibile: tutto ciò che può fare è spezzarsi in due. La tragedia del personaggio, che nel libro soffoca e ammorba, trova nel film un solo momento di “sfogo” espressivo: nelle scene a Fort Worth, la grande città in cui la possibilità dell’anonimato rivela un desiderio di Lou, quello di sparire/morire (forse rinascere).
Le uniche immagini significative del film sono quelle poche vedute, dall’alto e poi tra la folla, delle strade metropolitane. Vie moderne, orizzonti del possibile, utopie di fuga (da se stessi). Una manciata di inquadrature ci immergono nello sguardo del protagonista più di tutto il resto del film, dove non troviamo mai quella “prima persona” – che non vuol dire necessariamente voce narrante – fondamentale per entrare dentro l’assassino che è in Ford. Per un istante, la regia assume il punto di vista del personaggio. Certo, si può obiettare, lo fa anche quando ci mostra la (già) morta Jessica Alba ammiccante in un letto. Ma quelle immagini sono così di maniera, da repertorio, da non restituire niente della singolarità di un uomo, della sua identità, Lou rimane alieno e lo spettatore subisce quel che accade senza viverlo. Eventi e spiegazioni si rimandano con sciagurata scontatezza e nulla più. Semplicemente, il punto di vista è quello di un regista onnisciente, senza alcuna sottigliezza. E il grande romanzo dello sceneggiatore di Orizzonti di gloria diventa un banale giallo. The killer inside me non è un film brutto. È insignificante. E, francamente, non si sa cosa sia peggio.