Gli studenti di ogni ordine e grado, quelli che hanno già studiato e si sono laureati, addottorati, specializzati. I ricercatori, gli insegnanti. Perfino i presidi e i rettori. Tutti si sono mobilitati contro il decreto di legge Gelmini, molti si rifiutano di chiamarlo “riforma”, dato che non riforma ma taglia (fondi e posti di lavoro), privatizza ed esclude, intervenendo con durezza implacabile sul già precario mondo dell’istruzione. Si rivedono, dopo anni di comatoso silenzio e partecipazione virtuale, giovani corpi in corteo, nelle strade e nelle piazze. Davanti a Montecitorio, davanti alla sede della coalizione di Governo (Pdl), davanti al Palazzo dove Silvio Berlusconi vive e organizza le sue seratine orgiastiche. E’ bello guardarli, gli studenti che invadono le città, da Torino a Pisa, da Roma a Messina. E’ bella la giovinezza ribelle, più bella della giovinezza rassegnata. E’ bello anche se ieri, mentre tornavo dal Torino Film Festival sul Frecciarossa, hanno occupato la stazione di Firenze, e il treno è rimasto fermo un’ora e mezza, e una buona parte dei viaggiatori ha avuto reazioni esecrabili ( la galera, buttare la chiave). Faticoso ascoltare, inutile interloquire. C’è gente che riesce ad aver rispetto soltanto di sé, “impiccate chi mi fa ritardare la cena”.
Per chi, come me, ha trascorso fra cortei occupazioni riunioni e assemblee tutta l’adolescenza (il mai troppo chiosato sessantotto), c’è un senso di ripetizione eppure di sorpesa. La ripetizione è nei temi: noi lottavamo contro la scuola “di classe”, per aprire le porte del sapere a tutti, anche ai figli degli operai. E di nuovo, oggi, i fratelli minori dei nostri figli, lottano perché l’istruzione superiore, a colpi di ddl Gelmini, tornerebbe ad essere privilegio di pochi, di quelli che possono permettersela. La ripetizione è nei metodi: striscioni, slogan, cartelli, catene umane, cordoni, uova lanciate, manganellate ricevute. Lacrimogeni, passamontagna e limoni. Scappare. Tornare. Testardi, a prenderne altre, di botte. Col terrore che qualcuno si infiltri e faccia un danno apposta e mandi a ramengo tutta la civilissima protesta. Tutto regolare, tutto come prima, ma c’è anche una variazione: salgono sui tetti, gli studenti in lotta, si arrampicano per scalette pericolanti, corteggiano il baratro, sfidano i cornicioni. Hanno imparato dagli operai, che sono stati, in questi mesi, costretti, per farsi notare, a salire sulle gru, a occupare carceri dismesse in isole deserte (l’Asinara, sede di un ex penitenziario duro), a digiunare, a occupare impalcature, a rischiare la vita.
L’Italia, in 40 anni, è diventata più sorda, più distratta, più sciocca, più gaudente. I politici al potere sono sempre girati da un’altra parte. Bisogna gridare, per farsi sentire. I giovani, finalmente, stanno gridando. E’ un buon segno. E’ soltanto così, che si può svecchiare la classe dirigente, in questo Paese giovanilista a parole e gerontocratico nei fatti. Prendere in mano il proprio destino, prendere coscienza. Unirsi, gli uni agli altri, in base alla propria miseria. 40 anni fa, si scandiva uno slogan: studenti/operai/uniti nella lotta! Era un pensiero qualificante, nel giovanile nostro comunismo rosè, proporre, noi figli della borghesia torinese, un posto in piazza agli operai, un posto nelle nostre scuole occupate, un posto all’università per i loro figli. I nostri destini erano diversi dai loro. Loro salariati, noi futura classe dirigente. Oggi non è più così. Non c’è niente di volontaristico o ideologico, nell’unirsi degli studenti, dei ricercatori, dei borsisti senza borsa eccetera agli operai, agli immigrati, agli edili: precariato, disoccupazione, prospettive di povertà, stili di vita modulati sulla povertà sono un collante reale. Una condizione condivisa. E allora: tutti sui tetti. A rischiare per essere visti. A farsi vedere per salvare se stessi e questo Paese.