Non importa se amici o nemici del presidente del Consiglio, se suoi sostenitori ammaliati e proni o suoi avversari esasperati e furibondi, tutti ormai, chi più chi meno, parliamo in berlusconese. Cos’è infatti il nostro Paese nei discorsi di tanti politici e pubblici amministratori se non “l’azienda Italia”,  formula ripetuta con affezionato compiacimento come emblema di modernità e di efficientismo? E come devono agire  per il bene comune gli italiani non disfattisti e non bamboccioni e non comunisti?  “Facendo sistema” o “ facendo squadra”, o valorizzando “sinergie” o seguendo le indicazioni di una “governance”. La rigenerazione promessa, che non si occupa certo di progresso civile ma si esaurisce evocando una rincorsa al benessere materiale e ai consumi, si esprime con un lessico impregnato di aziendalismo e produttivismo, un vocabolario che si è insinuato nel linguaggio comune cambiando il nome delle cose e dunque anche le cose. Ce lo ricorda Gustavo Zagrebelsky in un piccolo e prezioso libro pubblicato da Einaudi: “Sulla lingua del tempo presente”.

Dando un’occhiata alle terminologie della scuola: non si parla più, per esempio, di piani di studio ma di “piani carriera”. Per quanto riguarda  la cultura in genere non si occupa più del “sapere”, nel suo significato più ampio e formativo, ma del “ saper fare” che produce “risorse umane” da poter utilizzare fino al limite degli “esuberi”.

In quest’ottica il governo di Berlusconi si è autoproclamato “il governo del fare”, il cui merito massimo sarebbe quello di aver posto fine al “teatrino della politica”. L’azione prima di tutto. “Fatto” diceva un indimenticato spot costituito dal rumore di un timbro su un foglio di carta. Per “fare” però occorre “lavorare”, non pensare o discutere. In altre parole il buon governo è quello che lavora. Non importa a cosa. Perciò bisogna “lasciarlo lavorare” guai a chi “rema contro”, trattasi di un potenziale sabotatore, di uno che non ama l’Italia. In questo lessico viene completamente lasciato in ombra, rimosso, l’altro aspetto della politica, quello della riflessione, dell’ascolto, del confronto. Le parole, sottolinea Zagrebelsky, sono importanti non solo per quello che dicono ma anche per quello che non dicono. Fare, ma che cosa? Lavorare, ma a che cosa? Infatti ci sarebbero tante cose da non fare, rispetto alle quali dunque sarebbe molto meglio non lavorare o lavorare contro. Ma la retorica aziendalista esalta il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde, il momento deliberativo. Conta l’efficienza per l’efficienza, il fare per il fare. L’attivismo è la virtù massima, voilà il numero delle leggi e delle riforme approvate. E’ sempre la quantità ad essere messa in evidenza. La politica dovrebbe scegliere i fini  ma attraverso la forza del linguaggio il mezzo (lavorare, decidere) si trasforma nel fine.

In Italia non esiste un ministero della propaganda, e meno male, ma alcune parole, amplificate per anni dai mezzi di comunicazione, fanno ormai parte del senso comune, vengono accettate passivamente senza essere più indagate creando una rete di significati che modificano le nostre esperienze. In quanti si interrogano sull’espressione iperberlusconiana dello “scendere in politica”? In passato nessuno “scendeva”, Berlusconi sì, ed è sottinteso che da una vita superiore lui è passato a una inferiore per rispondere a un dovere, sacrificandosi così per il bene comune. E quanti di noi non hanno accettato che si possa parlare di una prima e di una seconda Repubblica? Zagrebelsky ribadisce l’insensatezza di questa distinzione. La Repubblica è sempre la stessa, perlomeno finchè dispone di una Costituzione immutata. Certo, agli inizi degli anni Novanta gli scandali hanno sbriciolato i partiti ma non i pilastri della nazione. In realtà con la cesura tra le due Repubbliche si enfatizza il ruolo di Berlusconi, come se nella nostra storia esistesse un prima e un dopo il suo avvento. E così, attraverso un linguaggio degradato, il conformismo penetra nel comune modo di pensare, e dunque nella vita di tutti.

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