I giudici di sorveglianza e le amministrazioni penitenziarie: "mancano criteri e risorse per individuare i concreti elementi di pericolo contenuti nelle lettere in entrata e in uscita dalle carceri"
Censura eccessiva o doveroso rispetto delle regole di sicurezza? E’ questo il dilemma che affligge i magistrati e le guardie carcerarie che ogni giorno devono controllare la corrispondenza dei detenuti in regime di carcere duro (41 bis). La situazione è sempre più complessa, anche perché negli ultimi mesi solo a Milano sono raddoppiati i reclami da parte di quei carcerati che si sono visti trattenere la corrispondenza in entrata e in uscita dalla prigione. Fascicoli diretti ai giudici di sorveglianza che, per ciascuno, devono fornire le motivazioni all’origine del blocco.
Il guaio sta nella difficoltà di saper distinguere un semplice messaggio da una comunicazione in codice potenzialmente pericolosa. Nel dubbio la lettera non viene né spedita né consegnata.
“Il problema è rappresentato dalle esigenze in conflitto tra sicurezza dei cittadini e privacy – afferma Roberta Cossia, una lunga carriera in magistratura, da sette anni giudice di sorveglianza – La difficoltà sta nel fatto che la legge non offre criteri precisi per individuare quale siano i concreti elementi di pericolo”.
Se non è pensabile un dizionario di messaggi in codice, qualcosa si potrebbe migliorare. “Sarebbe necessario aggiornare il giudice sulle indagini in corso che riguardano un particolare clan a cui è legato un detenuto – continua la Dottoressa Cossia – perché possa valutare l’eventuale censura di determinate espressioni”.
Fatto sta che i detenuti in questo ultimo periodo hanno presentato sempre più reclami contro il blocco della corrispondenza. E nel corso della detenzione alcuni di loro ne collezionano numeri da record. Il motivo è sempre lo stesso: la certezza che il detenuto non possa coltivare, tra le lettere che manda o riceve, contatti che possano mettere a rischio l’ordine e la sicurezza pubblica.
Ma come funziona la prassi? Il primo filtro è disposto da persone di fiducia della direzione del carcere, per lo più componenti della polizia penitenziaria. Sono loro che, in presenza di corrispondenza poco chiara, lo palesano al direttore, finché la pratica raggiunge il tavolo dell’autorità giudiziaria. “Per questo genere di attività è fondamentale la conoscenza del fenomeno criminale cui può far riferimento il detenuto – afferma il commissario Amerigo Fusco, comandante della polizia penitenziaria del carcere di Opera (che annovera fra gli ospiti gente del calibro di Totò Riina) – E’ proprio nel corso del tempo che ogni addetto matura la memoria storica della carriera epistolare del recluso in 41 bis: il più prezioso degli strumenti per capire quali passaggi dell’epistola sono diversi dal solito”.
Ma, come fa notare Fusco, anche in questo caso le difficoltà non mancano. “Le macro realtà come la mafia o la ’ndrangheta sono dinamiche in continua evoluzione. Sarebbe opportuno che ci fossero più corsi di formazione, un maggiore scambio di informazioni tra la polizia che opera all’esterno e noi che lavoriamo nelle carceri. Ogni addetto dovrebbe maturare una competenza specifica per ogni area geografica, mentre spesso, con la poca disponibilità di organico, non siamo in grado di concentrare le risorse”.
Effettivamente pare molto difficile che un secondino triestino riesca a decifrare eventuali pericoli contenuti fra le righe di un detenuto siciliano. E il duplice rischio che si corre è sempre quello. Lasciare passare all’esterno ordini e “pizzini” per i compari ancora a piede libero, oppure censurare ingiustamente una comunicazione innocente, magari diretta ai propri familiari.
di Cristina Manara