“Usati e abbandonati dallo Stato”. Per questo due imprenditori e testimoni di giustizia, Ignazio Cutrò di Agrigento e Valeria Grasso di Palermo, hanno attraversato il Sud Italia e questa mattina si sono incatenati davanti al ministero dell’Interno a Roma. Ci è voluta tutta la giornata perché qualcuno, al ministero, si accorgesse di loro. E solo in serata, dopo varie incomprensioni con i funzionari del ministero, la protesta si è conclusa con una promessa formale del sottosegretario Alfredo Mantovano.
Una storia, quella di Cutrò e Grasso, che parte da lontano. “Da quando ho deciso di denunciare – spiega l’imprenditore edile agrigentino, che si è ribellato al clan Madonia – mi sono trovato fuori dal sistema. La mia azienda, di fatto, ha smesso di lavorare. Non riuscivo più a ottenere appalti”. Nel 1999 Cutrò riceve le prime minacce da parte dei clan. Deve pagare il pizzo se vuole andare avanti con il suo lavoro. Ma lui non si piega e non paga. Per questo i picciotti danno fuoco ai mezzi di trasporto della sua azienda. Comincia un autentico calvario: minacce, proiettili, incendi nei cantieri. Un calvario che dura fino al 2006, quando Cutrò decide di denunciare i suoi aguzzini. Grazie alla sua testimonianza, nel luglio 2007, parte l’operazione denominata “Face-off”. In manette finiscono i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto, rispettivamente di 41, 33 e 35 anni, tutti imprenditori edili. Dopo questa operazione prenderà il via un processo che dovrebbe arrivare a sentenza la prossima settimana (l’accusa ha chiesto in totale 99 anni di reclusione). La collaborazione con la giustizia, però, distruggerà la vita di Cutrò: “I privati non mi hanno più chiamato per svolgere lavori. Da un giorno all’altro ho smesso di gudagnare. Tutto perché avevo deciso di denunciare. Una scelta di cui, comunque, sono fiero”.
Oggi la clamorosa protesta: incatenati davanti al Viminale per ottenere un incontro con il ministro Roberto Maroni. “Lo Stato italiano – spiega Cutrò – mi ha prima usato per istruire un processo al gotha mafioso di Agrigento, poi mi ha abbandonato al mio destino”. Una giornata che è stata carica di tensione, nell’attesa di una risposta o almeno di una delegazione parlamentare. Poco dopo le 15 è il deputato dell’Italia dei Valori Francesco Barbato a raggiungerli. “Ho immediatamente chiesto agli uffici della Camera di mettermi in contatto con il ministro Maroni per chiedergli di ricevere, lui o chi per lui, immediatamente i due testimoni di giustizia e ascoltare le loro ragioni prendendo poi provvedimenti. Mi hanno risposto – continua Barbato – che il ministro è occupato e mi richiamerà appena possibile”. L’attesa è snervante e non accade nulla, tanto che, a metà pomeriggio, Cutrò viene colpito da un malore, ma rifiuta il ricovero ospedaliero. Appena rianimato non cede: “Io di qua non mi muovo”.
Dal palazzo del ministero, finalmente, qualcuno sembra accorgersi di quanto avvenuto. Poco prima delle 18 arriva la nota del sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano: “Il sistema di protezione per i testimoni di giustizia è operativo, per legge, solo su richiesta delle procure della Repubblica che utilizzano le dichiarazioni degli stessi testimoni. E qui di richieste non ne sono arrivate”. Tutto giusto, tranne le informazioni passate al sottosegretario. I due “incatenati”, infatti, non hanno richiesto alcuna protezione: “Noi non siamo venuti qui per chiedere allo Stato protezione”, sbotta Cutrò. “Io voglio restare nella mia terra! Sono qui solo per far sapere come vivo nel mio paese: La mia morte è stata già decretata dai boss. C’è un video nelle mani della dda in cui si vedono le persone venute in casa mia a minacciarmi di morte. E loro mi dedicano poche parole in una nota”. Passano altre due ore. E solo alle 20, dopo aver compreso il senso di questa protesta, Mantovano decide di ricevere Cutrò e Grasso per ascoltare la loro storia. E promettere un impegno. “Per fortuna qualcuno alla fine si è accorto di noi. Se non fosse accaduto, saremmo rimasti qui tutta la notte”.