La locandina di ZeligNon sono stato sincero fino in fondo in quel che vi ho scritto la settimana scorsa. Ho approfittato di una formula, di un elenco, per un parziale nascondermi, per tentare di farmi intendere senza farmi scoprire. Un dire e non dire dove al momento giusto mi rivesto e travesto da cuoco. Ma oggi mi confesso, dopo aver ragionato dell’erba della paura che un’amica strega mi ha fatto bere con un po’ di succo d’uva fermentato, sostenendo che la prima toglie ogni timore e il secondo, come ben sapete, costringe alla verità.
Non so voi, ma sempre più spesso mi soffermo a pensare che sono vittima di un personale ed ormai sempre più malcelato bisogno di calarmi nelle ragioni dell’altro. Una sorta di primo stadio di sindrome di Zelig ancora non conclamata, ma sempre più pressante nel mio quotidiano. Tutto si è presentato come un desiderio che si è poi trasformato in una pulsione irrefrenabile e che mi fa sperare di potere, non visto, vestire i panni dell’altro. Non visto perché di questi tempi essere accusato di questo o di quell’altro è più facile che bere un bicchier d’acqua. Esempio, quest’ultimo, che già mi potrebbe scatenare addosso critiche furibonde di chi sa benissimo che, per buona parte del mondo, bere un bicchiere d’acqua non è poi così facile.

Il mio dissolvermi sempre di più nel rassicurante mito di Zelig è ormai un vizio contratto di cui non posso fare a meno. Percepire nell’altro non solo le sue ragioni ma più che altro misurarne la sincera e appassionata accoratezza nel sostenerle. Rimanere così in bilico sul precipizio del conformismo approfittando del con-forme per acquisire il totale volume dell’idea altrui.

E ne scopri di accoratezza che ti fa abbassare le difese ponendoti in una capacità di ascolto che non conoscevi e che si fa personale droga per un piacere sottile e più potente a ogni tua trasformazione.

In gioventù magari hai letto L’Arte della Guerra e nel tentativo di saperne più di un facile ed incompleto taoismo, cominci lo studio delle forze del nemico, del presupposto avversario. E ci diventi adulto con questo convincimento, fino a quel che ormai considero un fortunato giorno, dove sono stato colpito da un morbo invisibile, la sindrome di Zelig. Ti ritrovi, per svelare le intimità più nascoste e dolorose dell’altro a condividerne i modi in un inverosimile simbiotico trasformismo.

Temi solamente che i tuoi dintorni se ne accorgano e, per un intimo bisogno di giustificare le tue nuove prospettive, aspetti il momento giusto per introdurre le tue nuove argomentazioni. Nella speranza che anche costoro non si mettano con la loro accoratezza a sostenere alcunché. Perché immediata è l’esigenza di ricomprendere e un nuovo Zelig riappare in me. Mi ritrasformo completamente in un nuovo Altro per ricomprendere le ragioni altrui. Per capire, per capire fino in fondo. Perdendo così momentaneamente la capacità di raccontare all’ultimo i perché del primo.

E via avanti con quattro o cinque trasformazioni al giorno che se estenuanti almeno riescono a farmi sedimentare un sapere altrui che considero unico e prezioso. Come dirvi? Anche se non mi sento in accordo con molte idee che nelle Zelighiane trasformazioni ho fatto momentaneamente mie, percependone poi le fragilità, mi sento subito dopo, credetemi, migliorato dai loro, se pur non condivisibili, intimi perché.

Vi scrivo per confessione non sapendo in che cosa mi potrei trasformare se via via, con accoratezza, intenderete riargomentare con qualche vostro perché. Questo è il vero pericolo, potrei capire, capire tutti. Tutti i portatori di accoratezza. Gli altri, i senza cuore, nel farsi invisibili, sono già scomparsi. A fine pranzo, se non avete alcun frutto, alcun dolce, prendete un crosticino di pane e inzuppatelo in un centimetro di vino rosso. Sarà sufficiente per ulteriore pacata felice riflessione.

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