L’ho visto al Torino Film Festival, la settimana scorsa. Martedì 7 , cioè dopo domani, lo proiettano a Roma, al cinema Farnese. Sarò là per parlarne. Si chiama “Il pezzo mancante”, l’ha diretto Giovanni Piperno, è un film che racconta la famiglia Agnelli, non tanto nei suoi fasti di monarchia industriale, casta nobiliare, capitale personale, quanto nelle sue aporie, nei non detti e non agiti, nei suoi dolori mal elaborati, nei suoi lutti secretati, nelle piccole grandi miserie occultate, spostate ai margini del quadro e da lì destinate a tornare, per quella legge misteriosa che trasforma il rimosso in reiterazione. Giovanni Agnelli è mostrato in tutto il suo charme evasivo. Prima” bon vivant” d’alto bordo, poi capitano inappuntabile di una nave che viaggia spedita. Spiritoso, elegante e ipocrita come si conviene a un Signore. Idolatrato da folle di torinesi anche steso nella bara. Lui, il mitico avvocato. Ma chi lo sa che aveva un fratello? Chi conosce Giorgio? Giorgio era terribilmente intelligente, instabile e inadatto a fare la sua parte nella Commedia degli Agnelli. E’ morto a 36 anni, nel 1964, in una clinica per malattie nervose. Piperno ha raggiunto una sua vecchia fidanzata. Gran donna, poetessa. L’ha fatta parlare. Ne è sortito qualcosa di più di un’ intervista, di una testimonianza. E’ un pezzo di teatro, ti arriva addosso con la violenza della verità, il lungo silenzio funziona come una spinta propulsiva. Non sono molti quelli che hanno accettato l’invito a parlare di Gianni Agnelli. Un vecchio compagno di bagordi giovanili racconta un clima da “amici miei” versione jet set. Gli altri si astengono. Molti, invece, parlano di Edoardo Agnelli, il figlio di Gianni, morto suicida, quarantenne, dopo un’ esistenza inquieta, tutta spesa nel tentativo di esistere al di là di quel cognome, sentendone tutto il peso,ma anche la malia, la potenza. E’ un film che consente diversi gradi di lettura. Non vuole condannare né assolvere. Il montaggio ha la leggerezza casuale delle libere associazioni, quando, appena sveglio, cerchi di assemblare un sogno, di spiegarlo a te stesso.
L’ho trovato formidabile. Equilibrato eppure appassionato. Calorosamente freddo. Girato con il puntiglio di un iperrealista, uno di quelli che sanno far parlare gli oggetti e dipingere il primo piano di un volto umano, con l’attenzione maniacale che esalta una natura morta.
Io sono nata a Torino e ci sono vissuta fino a 18 anni. Sono nata negli anni 50 e me ne sono andata all’inizio degli anni 70. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza , nella Torino monoculturale, città fabbrica, città Fiat, non ho sentito parlare d’altro che di quella famiglia, de “L’avvocato”. Per ribellione li ho attivamente ignorati, anche se, nel 1977, sono stata invitata in Tv, da Alberto Arbasino, a scontrarmi, in una trasmissione che si chiamava Match, con Susanna Agnelli. Io avevo appena scritto “Porci con le ali”, lei aveva appena scritto “ Vestivamo alla marinara”. Io ero una ventenne , lei aveva forse l’età che ho io adesso. L’ho aggredita con tutte le mie abilità dialettiche. Lei sorrideva. Il sorriso degli Agnelli, svagato, superbo, condiscendente.
E’ stato bello, grazie a Giovanni Piperno, andare a vedere, almeno un po’ , che cosa nascondeva…quel sorriso.