di Francesca Coin*

Alle volte i movimenti più dirompenti nascono da piccole congiunture storiche. Negli anni cinquanta a San Francisco il momento di rottura nasce simbolicamente in un luogo e una data precisi. Il luogo era la libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti, noto per le idee di sperimentazione che nascevano dai testi letterari di controcultura. La data simbolica era il 13 ottobre 1955, quando Ginsberg presentò in libreria “L’urlo”, un’opera censurata e contestata che come un terremoto riuscì a rompere il muro del conformismo americano post-bellico sino a spalancare le porte alla capacità trasformativa degli anni sessanta. Dal City Lights la fantasia eccentrica di una generazione si fece spazio nel mondo occidentale costellando due decenni di proposte sociali contro l’oppressione, la discriminazione, la guerra. La controcultura beat si intrecciò in quegli anni al Civil Rights Movement, al movimento per l’emancipazione della donna, alla contestazione della guerra in Vietnam, in una treccia di movimenti fluidi caratterizzata interamente dalla necessità di trasformazione. Critico, autocritico, marginale eppure mainstream, resiliente eppure insicuro, Ginsberg in quegli anni dava voce a una generazione. Scriveva del suo disagio, ma anche dei suoi sogni, e poi scriveva delle contraddizioni politiche dell’America.

Del disagio di una generazione oggi si è scritto molto. Si è scritto assai meno della sua forza. Gli ultimi dieci giorni hanno portato nelle prime pagine dei giornali un’altra immagine. L’immagine di una generazione di studenti nata a cavallo del 1989, l’anno che voleva sancire “la fine della storia”, e che oggi ci dice che di tale storia vuole riscrivere l’inizio. Nata al crocevia tra l’ostentazione del benessere e le prospettive di precarietà, di disoccupazione e di crisi di questi anni, stupisce solo in parte che dalle contraddizioni del presente sia emersa una tale volontà di parola. Da molti mesi in tutti gli atenei e nelle scuole si parla di riforma, di diritto allo studio, di diritto al lavoro, di diritto di cittadinanza, di diritto al futuro. Si parla di precarietà, di tasse universitarie, del diritto alla storia. E come spesso accade nelle fasi storiche di accelerazione, mesi e mesi di discussione d’un tratto convergono in una sincronia di movimenti che meraviglia per la possenza dei contenuti e per il coraggio delle azioni. Penso al processo di occupazione dei monumenti, provocatorio ed ironico a sottolineare che l’arte richiede presenza; penso all’intervento di Elena Monticelli a Le Invasioni Barbariche, impressionante nella determinazione lucida delle sue parole. Penso alle migliaia di studenti che hanno resistito sotto la pioggia per un giorno intero senza cedere alle provocazioni di una città blindata alle loro rimostranze. Penso ovviamente ad un governo che a tali rimostranze continua a rispondere con sordità.

Il 30 novembre una generazione intera poneva di fronte al governo delle istanze. Poneva il problema del diritto allo studio, esplicitava il rifiuto della precarietà nella ricerca e nel lavoro. Nelle stesse settimane qualche cosa di simile avveniva in Inghilterra. Mentre in Italia si discuteva il ddL Gelmini e la Legge di Stabilità, in Inghilterra la Browne Review introduceva forti tagli al finanziamento pubblico all’università, rimuoveva il tetto al costo annuo delle tasse universitarie, rimuoveva le agevolazioni ai tassi di interesse agli studenti, ed accelerava anche lì il trasferimento dei costi dell’istruzione agli studenti. Le rimostranze poste in entrambi i paesi sono state importanti. Il 4 dicembre su The Guardian Suzanne Moore guardava all’intensità delle proteste studentesche con supporto. Il suo articolo implicitamente suggeriva che questa generazione è costretta ad autoproclamarsi come unico referente del processo di riforma in quanto è l’unica che nell’esistente non ha nulla da salvare. Si chiedeva poiperchè non siamo tutti dalla parte degli studenti”? Già, perchè?

Di fronte alla determinazione degli studenti spiccano le dichiarazioni politiche di questi giorni. Spiccano le dichiarazioni di Gaetano Quagliariello, che rinnova l’intento di procedere con la riforma qualora il governo il 14 dicembre avrà la fiducia. Spiccano poi le affermazioni di Michele Salvati nel suo editoriale del 1° dicembre sul Corriere della Sera, in cui suggerisce di difendere la riforma Gelmini per due ragioni: perchè “questa legge contiene sufficienti spunti innovativi e in una giusta direzione di premio al merito…”, e “perché le scelte reali in politica si fanno spesso tra il peggio ed il meno peggio”. Non entro nel merito degli “spunti innovativi”, che Francesco Sylos Labini ha già provveduto a decostruire con attenzione. È la politica del meno peggio che vorrei commentare, in quanto Salvati con questa frase ci dice due cose importanti. Primo, ci dice che questa riforma non può essere realmente difesa nemmeno da chi la difende. Secondo, ci dice che la realpolitik vigente non si basa sull’etica, bensì sul compromesso. Il ddL Gelmini è il meglio del peggio, perciò va accettato, ci dice Salvati. Gli studenti dicono il contrario: il meglio del peggio non è un’opzione.

La divergenza di conclusioni di Salvati e dei movimenti è importante. È importante perchè evidenzia una differenza non solo politica, bensì generazionale e di contesto. Il contesto storico in cui è nata la generazione di Salvati differisce radicalmente rispetto a quello in cui sono nati gli studenti di oggi, che sono i primi a vedere davanti a sé solamente declino. L’economia dei decenni passati, anche all’interno delle fasi belliche, era inserita in un contesto di sviluppo. In questo senso la politica del male minore diviene una risposta semplicistica ai problemi delle nuove generazioni. La politica del male minore sancisce inoltre un arretramento culturale, forse addirittura antropologico, rispetto al principio di responsabilità verso i più giovani. Tornano alla mente gli Indiani d’America: “non ereditiamo la terra dai nostri padri, la prendiamo in prestito dai nostri figli”, dicevano. La politica istituzionale italiana sembra aver dimenticato il dovere generazionale di restituire la terra. Non la rende a nessuno, la tiene per sè. Né ha cura dei beni comuni, ma accusa chi li protegge. Non stupisce che gli studenti si sentano traditi, che si sentano “derubati dei sogni”, come ha scritto Elisa Albanesi. Stupisce piuttosto che gli studenti riaffermino autonomamente il diritto a sogni che in realtà sono loro diritti. Stupisce che si siano presi la responsabilità di difendere quei beni comuni che nessuno ha insegnato loro a proteggere. Stupisce che si possa non ascoltare una generazione che dimostra un’indipendenza di pensiero dimenticata da decenni. Stupisce l’assenza di risposte legittime alla domanda di Suzanne Moore: perchè non siamo tutti dalla parte degli studenti?

*Rete29Aprile

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