Niente accordo sul clima globale. Dopo il fallimento del vertice sul clima di Copenaghen, rischia di naufragare anche quello attualmente in corso a Cancun, in Messico. A tale riguardo il Giappone ha recentemente annunciato che, come gli Usa, non ratificherà il Protocollo di Kyoto, l’accordo internazionale contro il riscaldamento climatico. Un altro fronte aperto è la crescente conflittualità tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo: se il Nord chiede loro di contenere emissioni e deforestazione, le potenze emergenti – non solo Pechino, ma anche Brasile e Venezuela – pretendono che, dopo 13 anni di accordi e trattative, siano i leader del G8 a dare il buon esempio nella riduzione dei gas ad effetto serra.

La proposta europea, un patto globale per tagliare la C02, sembra una missione impossibile: la riluttanza di colossi come Cina e India fa eco a quella degli Usa, responsabili del 36,2% delle emissioni globali. In questo scenario, il “no” giapponese allontana ulteriormente la prospettiva di un’intesa per frenare il surriscaldamento del pianeta.

I rappresentanti nipponici sono stati chiari: Tokyo, che ha a lungo insistito per la creazione di “un nuovo ed unico trattato con la partecipazione di tutti i maggiori emettitori”, non accetterà un’altra volta di vincolarsi legalmente per ridurre le sue emissioni. Motivo? I suoi principali competitori sui mercati globali (Cina, India, Indonesia e Usa) continuano a non accettare limitazioni. Jun Arima, vice-direttore generale per gli affari ambientali del ministero giapponese dell’economia, del commercio e dell’industria, è stato perentorio: “Il Giappone non fisserà i suoi obiettivi in funzione del Protocollo di Kyoto, sotto nessuna condizione e in nessuna circostanza”.

Un presa di posizione che è stata criticata duramente dalle organizzazioni non governative, mentre il governo di Londra derubrica il rifiuto giapponese a una mossa tattica di negoziazione.

Secondo Sergio Serra, l’ambasciatore brasiliano designato per la lotta al global warming, “a proposta del Giappone su questo problema sarà evidentemente un ostacolo alla Conferenza di Cancun, salvo che Tokyo non accetti di fare dei compromessi. Non ci sono modi di andare avanti se non otteniamo la continuazione del Protocollo di Kyoto”. Il Brasile, forte del parziale arresto della deforestazione in Amazzonia (-14% rispetto allo scorso anno), è una delle poche grandi economie a prendere sul serio la questione climatica: “È nostro dovere, onoreremo gli impegni che abbiamo preso e non abbiamo bisogno di favori”, ha affermato l’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva che ha sottolineato come, secondo lui, il vertice messicano non porterà a nulla: “Le nazioni sviluppate hanno fallito nell’ambizione di ridurre le loro emissioni, e l’Occidente non è trasparente nel fornire aiuti ai Paesi emergenti nella lotta ai cambiamenti climatici”.

A Cancun sta aumentando anche la pressione sugli USA, da parte dei Paesi in via di sviluppo. Per Hugh Montgomery, rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità, gli Stati Uniti “non hanno fatto abbastanza per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico”, eppure costringono le nazioni emergenti a “subire delle critiche”. Anche i negoziatori cinesi hanno forti dubbi sulla sincerità statunitense: Su Wei, capo della delegazione di Pechino, ha lanciato un appello perché Washington ed i paesi più industrializzati rispettino i loro impegni, visto che “dovrebbero essere ritenuti loro i responsabili del riscaldamento planetario a causa delle emissioni non controllate di gas serra durante i 200 anni del processo di industrializzazione”.

Ancora più esplicito e radicale, come è nel suo stile, il presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha accusato il capitalismo “criminale” dei paesi del Nord del mondo per le recenti alluvioni che hanno allagato il Venezuela, uccidendo 32 persone e lasciandone senza tetto 70.000. Dopo avere dato rifugio a 25 famiglie presso la sua stessa abitazione ed ordinato di creare spazio per ospitarne altre in ministeri, caserme e in un centro commerciale, Chavez ha accusato l’Occidente ed il suo “arrogante” modello di sviluppo: “Le nazioni sviluppate distruggono irresponsabilmente l’ordine ambientale, nel loro desiderio di mantenere un modello di sviluppo criminale, mentre l’immensa maggioranza delle genti della Terra ne soffre le più terribili conseguenze”, aggiungendo anche, dalle colonne di The Lines of Chavez, che “lo squilibrio ambientale che il capitalismo ha causato è senza dubbio la causa fondamentale degli allarmanti fenomeni atmosferici», preso atto che «le economie più potenti del mondo insistono con un distruttivo stile di vita e si rifiutano di prendersene le responsabilità”.

Ma se la guerra ai cambiamenti climatici può sembrare una questione meramente economica (o ideologica), è pur vero che da questa dipende la stessa sopravvivenza di alcuni paesi. Come gli Island States, i cui territori sono già pesantemente colpiti dall’innalzamento del livello dei mari. Per questo a Cancun hanno chiesto alle nazioni più ricche di contenere il surriscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi, se si vuole evitare di “consegnarle alla storia”. Una eventualità da non escludere, ora che la risoluzione delle divergenze fra nord e sud del mondo, che si tratti di cambiamenti climatici piuttosto che “modelli di sviluppo”, sembra ancora più lontana.

di Andrea Bertaglio

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