Accusate di corruzione nell’ambito di un maxi progetto infrastrutturale in territorio nigeriano, le compagnie Technip SA (Francia), JGC (Giappone) e l’italiana Eni – in rappresentanza della sua controllata Snamprogetti – sarebbero pronte a chiudere le proprie pendenze con la giustizia locale patteggiando una maxi multa. Lo riferisce l’agenzia Bloomberg citando le dichiarazioni del procuratore della Economic and Financial Crimes Commission di Abuja Godwin Obla. “I colloqui proseguono e speriamo di raggiungere un accordo al più presto una volta che la cifra sarà concordata dalle parti”, ha dichiarato il funzionario. La Nigeria chiede non meno di 150 milioni di dollari a ciascuna compagnia coinvolta.

La vicenda fa riferimento al piano di realizzazione degli impianti di liquefazione del gas presso Bonny Island, nel sud della Nigeria. Un progetto dal valore complessivo di oltre 6 miliardi di dollari. Secondo l’accusa, tra il 1994 e il 2004, il consorzio TSKJ (del quale facevano parte le già citate Technip, Snamprogetti – che dal 2008 è ufficialmente incorporata in un’altra azienda del gruppo Eni, la Saipem – , JGC e l’americana KBR, una sussidiaria del colosso Halliburton) avrebbe pagato oltre 180 milioni di dollari a politici nigeriani per ottenere la commessa. Nelle ultime settimane la giustizia locale si era attivata arrestando 23 dipendenti di KBR e Technip, poi rilasciati, e spiccando un mandato di cattura nei confronti dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney, al vertice di Halliburton fino al 2000. La compagnia americana ha respinto l’accusa negando qualsiasi coinvolgimento da parte dell’ex numero due dell’amministrazione Bush.

Al momento non emergerebbero particolari dettagli in merito al patteggiamento in corso in Nigeria. Il portavoce della Technip Christophe Belorgeot ha confermato all’agenzia Bloomberg la collaborazione in atto tra la sua compagnia e le autorità di Abuja senza però fornire ulteriori particolari mentre il suo collega dell’Eni Gianni di Giovanni ha precisato come “le spiegazioni e la documentazione fornita” dalla sua società abbiano soddisfatto gli inquirenti locali.

Il raggiungimento di un accordo per una risoluzione “finanziaria” del procedimento consentirebbe alle compagnie di chiudere ogni questione sul fronte nigeriano facendo ricorso alla strategia già applicata nei confronti degli inquirenti americani che, in passato, avevano mosso le medesime accuse ai membri del consorzio TSKJ. Lo scorso anno Halliburton e KBR avevano patteggiato una multa record da 579 milioni di dollari. Eni se l’era cavata con 365 milioni, Technip aveva chiuso le sue pendenze con poco meno (342 milioni).

L’eventuale chiusura dei conti con la Nigeria non risolverebbe comunque in pieno i guai giudiziari dell’Eni, tuttora nel mirino della giustizia italiana in relazione alla medesima vicenda. Alla fine di novembre, i pm della Procura di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro e il gup Simone Luerti hanno chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale per cinque ex manager della Snamprogetti. Tra questi anche Luigi Patron e Angelo Caridi che, all’epoca, rivestivano rispettivamente i ruoli di presidente e amministratore delegato della stessa Snamprogetti. Giuseppe Surace, direttore generale della Saipem Construction Company Limited, era stato arrestato un paio di giorni prima in Nigeria.

Secondo la tesi dell’accusa, in base alla ricostruzione del tribunale statunitense di Houston, le tangenti sarebbero state pagate attraverso il canale della LNG servicos e gestao de projectos, una società – con sede nel paradiso fiscale di Madeira – legata al consorzio e partecipata al 25% dal Gruppo ENI. Da lì le tangenti sarebbero poi giunte in Nigeria per mezzo dell’avvocato inglese Jeffrey Tesler e della sua società, la Tri-Star Investments Ltd, registrata a Gibilterra. Gli importi sarebbero stati approvati direttamente dal consiglio di amministrazione di LNG del quale – a quanto risulta dai dati della camera di commercio di Madeira – facevano parte anche due rappresentanti di Snamprogetti: Antonio Falliti e Paolo Baicchi. Secondo Spadaro e De Pasquale, i due manager italiani si sarebbero opportunamente assentati durante le votazioni del consorzio in modo che le tangenti fossero approvate ma, al tempo stesso, il Gruppo Eni risultasse defilato.

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