Pochi risultati dalla conferenza sul clima. Ma a preoccupare è soprattutto l’insufficiente volume degli investimenti nell’energia pulita. Un problema globale sui cui pesa la crisi del settore negli Stati Uniti
L’accordo pressoché unanime (resta fuori la Bolivia, ferma sulle sue posizioni) trasferisce in sede Onu il documento programmatico di Copenhagen senza che siano assunti impegni vincolanti. Si resta, di fatto, sul piano delle dichiarazioni di intenti mettendoci, tanto per gradire, un po’ di ambizione in più. Tra gli obiettivi messi sulla carta, la realizzazione di ulteriori tagli alle emissioni di gas serra con l’intento di contenere il riscaldamento globale entro la soglia dei +2° (ipotizzando per il futuro un abbassamento di mezzo grado del livello di tolleranza). Al lato pratico si chiede di abbassare il livello della CO2 immessa nell’atmosfera dal 25 al 40% entro il 2020 rispetto alle quote di trent’anni prima. Un piano che resta però circoscritto al club di Kyoto escludendo così dallo sforzo gli Stati Uniti, che non hanno mai sottoscritto il documento (in scadenza nel 2012), nonché Cina e India che, pur avendo incorporato l’intesa, possono operare in regime di deroga.
Sul tavolo, a conti fatti, resta soltanto il nuovo accordo economico per la costituzione del “Green Climate Fund”, una cassa pronta a riempirsi gradualmente dal 2020 in poi (90 miliardi nel primo triennio, poi 100 miliardi ogni anno) e destinata a finanziare i Paesi poveri ed emergenti nel contrasto al cambio climatico e nella promozione delle energie pulite. La speranza, pare di capire, è che laddove non arriverà la politica possa giungere forse il mercato. Come a dire, in altri termini, che la spinta decisiva potrà darla in primo luogo la grande attenzione internazionale per la green economy e i conseguenti investimenti in tecnologia compatibile. Una speranza diffusa ma non per questo priva di aspetti critici.
L’economia “verde” continua a tirare ma il suo tradursi in un’autentica rivoluzione capace di garantire nuova sostenibilità resta ancora un obiettivo lontano. Al netto delle perplessità (per usare un eufemismo) sull’opportunità di certe strade, a cominciare dai sempre meno popolari carburanti “bio”, e sullo spettro speculativo che coinvolge da tempo le materie prime ma anche i derivati finanziari sul prezzo dei crediti di emissione, a gettare un’ombra sul futuro “sostenibile” del Pianeta è il volume effettivo degli investimenti. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dall’ultimo rapporto redatto da Bloomberg New Energy Finance per Pew Charitable Trusts, un ente no profit con sedi a Washington e Philadelphia. Da qui al 2020, ha riferito il Guardian citando le conclusioni dello studio, le 20 nazioni più ricche del Pianeta investiranno nel comparto delle rinnovabili circa 1.700 miliardi di dollari, ovvero 546 miliardi in meno di quanto sarebbe necessario, secondo i calcoli, per frenare il riscaldamento globale.
In attesa di poter contare sui fondi del Climate Fund, insomma, il mondo dovrà fronteggiare un notevole deficit di impegno economico sul quale, ad oggi, pesa in modo particolare la crisi del settore statunitense. Il compromesso sui piani fiscali che va materializzandosi con l’intesa tra l’amministrazione Obama e l’opposizione repubblicana, ha riferito nei giorni scorsi il Financial Times, rischia di mietere molte vittime proprio nel comparto verde. Gli Usa ipotizzano seriamente di bloccare i crediti concessi agli operatori del settore delle rinnovabili mettendo a rischio, ha ricordato il presidente dell’American Council on Renewable Energy Michael Eckhart, migliaia di posti di lavoro. Un vero dramma per i segmenti del solare (con i 2/3 dei nuovi progetti dipendenti dai finanziamenti pubblici) e dell’eolico (dove la quota del sostegno statale sale all’85%). Rispetto al medesimo periodo dell’anno passato, ha ricordato il quotidiano britannico, nei primi 9 mesi del 2010 la capacità di produzione energetica delle installazioni eoliche americane è diminuita del 64%.