Il Comunicatore non comunica
L’attacco al Raggio verde è martellante e forsennato. Il Polo, in Vigilanza, fa il diavolo a quattro. I ricorsi di Forza Italia all’Authority diventano tre, sempre per invocare la chiusura del programma per violazione della par condicio. Il clima è pesante. Mentre Montanelli viene minacciato di morte, davanti all’abitazione di Ruotolo compare una scritta con lo spray nero: «Ruotolo, sei una merda comunista».
Venerdì 11 maggio è l’ultimo giorno prima del silenzio elettorale. Santoro propone ai due contendenti per Palazzo Chigi di confrontarsi finalmente in un faccia a faccia. Rutelli accetta. Berlusconi rifiuta, ma così rischia di regalare l’ultima serata televisiva utile all’avversario. Gianni Letta, al solito, è incaricato di mediare con Santoro. Gli propone un confronto a distanza in due sere separate, il 4 e l’11 maggio, e solo a patto che l’ultima tocchi a Berlusconi. Santoro tiene duro: «Ho invitato entrambi per l’11, Rutelli ha accettato. O viene anche Berlusconi, oppure non posso certo spostare Rutelli». Letta scende a più miti consigli: «è possibile che Silvio accetti di venire il 4». Però pretende una serie di garanzie. Anzitutto sul cast degli intervistatori. Negli altri programmi il Cavaliere è abituato a sceglierseli. Santoro non si presta. Propone a Letta una terna di giornalisti non certo estremisti, in rappresentanza dei primi tre quotidiani italiani: Gad Lerner del «Corriere», Mario Pirani di «Repubblica» e Gianni Riotta della «Stampa». Letta accetta, ma Berlusconi rovescia il tavolo: non ci sta. Santoro gli viene incontro, aggiungendo alla terna l’innocuo Paolo Graldi, direttore del «Messaggero», e Carlo Rossella, direttore del berlusconiano «Panorama». Letta accetta di nuovo, ma il Cavaliere fa saltare tutto. Anche perché nel frattempo è spuntato un nuovo scoglio: le domande. Berlusconi, altrove, è abituato a conoscerle in anticipo per cassare quelle sgradite e prepararsi sulle altre evitando l’effetto-sorpresa. Altro diktat inaccettabile, almeno per Santoro, che si limita a un fax inviato a Letta in cui promette la massima correttezza e anticipa i temi che intende toccare:
“Ribadisco che la mia conduzione non sarà né aggressiva né polemicamente preconcetta, ma giornalisticamente motivata. Il primo aspetto riguarda il tempo: mi pare che il presidente Berlusconi possa ragionevolmente avere a disposizione un’ora di trasmissione, mentre un’altra ora sarebbe il tempo a disposizione per tutto il resto (servizi, altri ospiti, conduzione). I temi in discussione, prendendo come spunto l’editoriale di Sergio Romano sul «Corriere della Sera» del 27 aprile, saranno quattro: le critiche della stampa estera (in particolare quelle dell’«Economist») e il conflitto d’interessi; la questione giudiziaria e la questione morale; i risultati del governo di centro-sinistra e le ricette della Casa delle Libertà su Welfare e tasse; infine una domanda: la Casa delle Libertà è europeista? Le risposte dell’on. Berlusconi dovrebbero essere contenute nei due minuti circa, un tempo ragionevole televisivamente parlando che gli consentirebbe di rispondere a trenta domande”.
La trattativa va per le lunghe e il tempo stringe: senza un sì o un no da Arcore, non si possono programmare le ultime due puntate. A questo punto s’intromette Saccà, che come capo del Marketing strategico della Rai non ha alcun titolo per intervenire, ma telefona a Santoro chiedendo di incontrarlo in veste di messaggero ufficioso di via del Plebiscito, per dispensare qualche «consiglio da amico». All’appuntamento, fissato al bar Antonini, Santoro si fa accompagnare da Ruotolo. Davanti a un aperitivo, il messaggero Saccà viene subito al punto: «Michele, guarda, Berlusconi non gradisce i giornalisti che gli hai proposto, e vuole sapere in anticipo le domande. Ti conviene accettare le sue condizioni. Sappi che qui, ora, ti stai giocando il tuo futuro in Rai». La proposta è chiara: Santoro potrà anche inscenare un’intervista aggressiva, ma Berlusconi, sapendo in anticipo che cosa gli verrà chiesto e quando, farà un figurone. Più che un’intervista, una sceneggiata per salvare la faccia a tutti. Santoro rifiuta. Saccà riferisce al suo mandante. E giovedì 3 maggio, nel pomeriggio, dopo un supplemento di tira e molla, Letta chiude ogni residuo spiraglio: «Per domani sera non se ne fa più nulla. Silvio non ritiene opportuno intervenire, mi dispiace. Ho fatto di tutto per convincerlo, sei stato molto gentile, ma non c’è nulla da fare».
Manca solo un giorno alla puntata riservata al Cavaliere. Invitare altri politici non si può, altrimenti salterebbe anche la serata dell’11 con Rutelli. Così Santoro decide di andare in video da solo. Avendo rifiutato l’intervista senza domande, ne manda in onda una senza risposte. Con tutto ciò che avrebbe chiesto a Berlusconi:
“Io ho fornito tutte le garanzie possibili e immaginabili perché il presidente Berlusconi potesse essere qui stasera. Sono andato molto vicino al limite, quasi oltre il limite della dignità, della professionalità del giornalista e della mia dignità di persona. Ho cercato di tranquillizzare da tutti i punti di vista. Ma non è servito a molto, come vedete, anche se questo spazio era di Berlusconi e resterà di Berlusconi, nel senso che non sarà riempito. Perché io Berlusconi l’avevo invitato non per questa sera, ma per l’ultima puntata, quella dell’11, perché finalmente avvenisse questo confronto con Rutelli. Invece lui mi ha detto: «Preferisco fare una puntata in par condicio, prima vengo io, poi viene lui». Invece non è venuto.
Niente di drammatico, caro presidente. Lei ha tantissime occasioni per parlare in televisione, ha anche tantissime televisioni, quindi può parlare quanto e come vuole. Però io al suo posto non avrei disprezzato questa occasione piccolissima che le avevamo proposto, perché era del tutto particolare […]. Dirigere un’impresa è importante […] però per dirigere un paese bisogna convincere gli altri che si riesce a convivere con i diversi, con quelli che non la pensano come te […]. Ecco, questa piccolissima occasione poteva rassicurare tutti che possiamo vivere insieme, anche quelli che non la pensano esattamente come lei: convivere, discutere, confrontarci e dialogare. Non è avvenuto.
Io avevo preparato pochissime domande. Cinque o sei. Naturalmente una prendeva spunto dall’«Economist»: lo so, lei mi avrebbe ricordato che Luciano Violante ha detto che il presidente del Consiglio non lo nomina l’«Economist», lo nominano gli elettori italiani. A me questa affermazione di Violante non è che sia piaciuta molto, perché francamente l’ho vissuta come una specie di disprezzo del ruolo che la stampa deve avere dentro un’elezione […]. Perché i giornali non scelgono i presidenti, ma sono indispensabili perché gli elettori si facciano un’opinione coerente, serena e vadano a votare avendo ricevuto il maggior numero di informazioni possibile. Poi, diciamolo chiaramente, non è che la sinistra sia stata molto limpida nei suoi confronti. Le leggi sul conflitto d’interesse potevano tranquillamente essere approvate prima, e anche il comportamento nella regolamentazione del sistema televisivo non è stato coerente con i programmi del centrosinistra. Qualche ascoltatore mi ha scritto: ma voi queste cose ve le ricordate sempre prima delle elezioni? Magari per il centrosinistra può essere vero, ma per quanto riguarda noi sicuramente non è vero. Quando io lavoravo a Mediaset, si era appena formato il governo D’Alema con il contributo determinante del presidente Francesco Cossiga […]. Io allora portai il presidente Cossiga proprio dentro gli studi di Mediaset e gli feci una lunghissima intervista. Se lo ricorda certamente, perché tentò di telefonare, però purtroppo la trasmissione era registrata e lei non è potuto entrare. C’è qualcuno di tutti gli sterminati elettori della Casa delle Libertà che si ricorda questo episodio di Cossiga che parla del conflitto d’interessi dentro Mediaset? Sicuramente non c’è nessuno, come nessuno ricorda di quando sono andato sul ponte di Belgrado, ed era presidente del Consiglio D’Alema. Siamo un paese con una memoria veramente cortissima […].
Il più grosso dei problemi che ha sollevato l’«Economist» è questo: potrebbe accadere che lei, una volta diventato presidente del Consiglio, sia chiamato a comparire come imputato in tribunale per rispondere di un’accusa gravissima: aver corrotto dei magistrati […]. Ora, lei avrà milioni di risposte da dare, anche se alle 59 domande dell’«Economist» ha preferito non rispondere. Ma sono anche sicuro della risposta che avrebbe dato immediatamente a me […]: «Ma in Italia quei magistrati che se la prendono con me non sono sereni, non sono dei veri magistrati, sono dei politici travestiti, dei comunisti che vestono la toga». Bene, allora le avrei fatto la mia vera domanda […]: poniamo che lei abbia ragione, anzi diciamo che lei ha ragione; ma chi può decidere se un magistrato è sereno o no? Lo può decidere solo un altro magistrato. Perché fino a quando un altro magistrato non lo decide, quei magistrati di Milano sono dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni […]. E allora le avrei chiesto: ma se un presidente del Consiglio in carica mi dice che quei magistrati non sono sereni, come faccio io, cittadino qualunque, cittadino della strada, cittadino che non ha legioni di avvocati a sua disposizione, che non ha immunità parlamentari per difendersi dalla giustizia, come faccio io a entrare in tribunale e a essere sicuro che lì si amministra la giustizia, quando il presidente del Consiglio del mio paese mi dice che quelli non sono sereni? Le avrei chiesto, allora: mi faccia fare uno scoop, questa sera, lo dica che lei, una volta eletto, polemiche con i magistrati non ne farà più. Che anzi farà in modo che le cose vadano così velocemente per quanto riguarda la giustizia che ci libereremo di queste polemiche nel più breve tempo possibile […].
Però sa qual è la verità? Mentre faccio queste domande mi rendo conto che è completamente inutile, anzi, le dirò di più: che è sbagliato fare queste domande a lei […]. Faccio già l’autocritica in diretta per averle pensate, queste cose. Queste domande sarebbe giusto rivolgerle direttamente ai cittadini, come dice Berlusconi, come dice lo stesso Violante, visto che i cittadini devono decidere […]. Allora io dico ai cittadini italiani: provate a immaginare. Abbiamo un presidente del Consiglio che va in un tribunale e deve rispondere dell’accusa di corruzione dei magistrati. Cosa faranno le televisioni di tutto il mondo? Cosa faranno i giornali di tutto il mondo? Lo so: c’è un 40% di italiani che già la sua risposta ce l’ha, probabilmente dopo il 13 maggio saranno molti di più del 40%, probabilmente saranno la maggioranza a dire «e chi se ne frega delle televisioni e dei giornali di tutto il mondo» […]. Ecco perché dico che è inutile chiedere queste cose a lei, perché queste cose bisogna chiederle ai cittadini che poi decideranno di lei, di me e di tutti noi […]. E così do ragione a lei, do ragione a Violante che questo l’ha ricordato a noi e all’«Economist». E do ragione anche a Umberto Bossi, la cui intervista che tra poco sentiremo avremmo potuto sentire insieme, io e lei, in questo studio e invece sono costretto a sentirmela da solo. Ma credo che anche lei, da casa sua, uno sguardo glielo butterà. Grazie dell’attenzione, e spero che sia per la prossima volta”.
Bossi, intervistato da Corrado Formigli, promette «una legge chiara sul conflitto d’interessi», perché «penso che lì sia d’accordo anche Berlusconi» e perché «nessuna parte del mondo è messa così». E la Rai?
“Lì ci sono i nemici… certe soluzioni vanno affrontate subito… Il Machiavelli diceva che il Principe i nemici li deve radunare e fare fuori in una notte. Non so se Berlusconi batterà quella strada, perché in realtà Berlusconi è un po’ buono, un po’ buonista […]. Adesso abbiamo la Rai in mano ad alcuni personaggi che di democratico non hanno niente […]. Io sono per intervenire con decisione. Il popolo qui direbbe che occorrono i coglioni per fare le cose, anche se gli altri reagiranno invocando la democrazia. Ma la loro democrazia la conosciamo: ieri la sinistra ha fatto tirare una bomba contro una nostra sede a Modena […]. Ora non vorrei che fossero troppo buoni, dalla parte di Forza Italia. Chi ha sbagliato in Rai, chi s’è comportato volutamente in modo antidemocratico, deve andarsene fuori dalle scatole. Vadano a zappare la terra“.
Sono lontani i tempi in cui Bossi, nel ’94, dichiarava alla commissione Cultura della Camera: «Senza le trasmissioni di Santoro l’Italia non avrebbe preso coscienza degli sprechi di denaro pubblico, del disastro culturale, economico e sociale del Sud provocato dal sistema dei partiti». I tempi in cui Occhetto considerava Santoro «un leghista di sinistra» per aver dato spazio alla Lega e al Msi che, in tutto il resto della Rai, non esistevano.
Monologo in casa P2
L’editoriale di Santoro lo vedono in 6 milioni. Brutto segno per il Cavaliere, anche in vista dell’ultima puntata con Rutelli. Berlusconi gioca l’ultima carta per bloccarla: il 7 maggio chiede per la quarta volta all’Authority di chiudere il Raggio verde. Ricorso respinto. Allora il padrone di Mediaset chiama Costanzo e prenota in fretta e furia uno speciale del suo show per farsi intervistare (si fa per dire) in prima serata, in contemporanea con il rivale. Così, l’11 maggio, monologa per un paio d’ore su Canale 5, travolgendo ogni tentativo di domanda (si fa sempre per dire) dell’amico Maurizio. Intanto, su Rai2, Rutelli si trova di fronte Maurizio Belpietro, direttore del «Giornale» berlusconiano; Pierluigi Battista, già vicedirettore del berlusconiano «Panorama»; e Lucia Annunziata, ufficialmente «di sinistra» ma futura collaboratrice del «Foglio» della signora Berlusconi. La più astiosa con Rutelli sarà proprio lei. «Dove c’era Francesco Rutelli» scrive l’indomani Curzio Maltese su «Repubblica» «si è assistito a un confronto vero, anche duro ma interessante, fra un politico che accetta il contraddittorio, domande vere, e spesso anche ostili, in cambio di risposte vere. Dall’altra, dove c’era Berlusconi, s’è visto l’infinito e ormai vecchio monologo di un uomo di potere che è anche un grande venditore, nella sua televisione, davanti al suo pubblico, in assenza di qualsiasi contraddittorio». Il pubblico premia clamorosamente Il raggio verde: quasi 7 milioni di telespettatori contro i 4 e mezzo dei due piduisti. Gianni Letta chiama Santoro e gli rende l’onore delle armi: «Sei un grande professionista, ora non sappiamo che succederà alle urne…». E Santoro: «Te lo dico io, Gianni, che succederà: Berlusconi vince e poi ci massacra». Previsione azzeccata, in tutto e per tutto.
L’Authority del più forte
Il 13 maggio Berlusconi vince le elezioni e torna a Palazzo Chigi dopo sette anni. Ma non s’accontenta: il 20 presenta un nuovo esposto all’Authority, il quinto in poche settimane, contro Il raggio verde che ha osato intervistare Rutelli senza il suo permesso. Ricapitolando. Il 6 aprile, esposto per la puntata su Satyricon e il caso Mangano; l’Autority ordina la puntata riparatoria con Dell’Utri. Il 24 aprile, secondo esposto di Berlusconi anche contro la puntata riparatoria. Ai primi di maggio, terzo esposto di Forza Italia per l’intervista a Rapisarda. Il 4 maggio Berlusconi rifiuta l’invito, Santoro gli fa lo stesso le domande in diretta e scatta il quarto esposto; il 9 maggio l’Authority anticipa che le modalità di conduzione del Raggio verde sono state «solo in parte conformi alla norme in materia di par condicio elettorale», ma rinvia il verdetto finale a dopo le elezioni. L’11 maggio tocca a Rutelli; il 20 maggio, quinto esposto di Berlusconi per la violazione della par condicio che lui stesso, con la sua continuata assenza, ha provocato. Per tutta risposta, appena saputo chi ha vinto le elezioni, a fine maggio l’Authority sanziona la Rai per Il raggio verde con una sentenza che risponde a tutti gli esposti berlusconiani: multa di 40 milioni di lire per non aver dato sufficiente prevalenza a Forza Italia nella puntata «riparatoria» con Dell’Utri: «La società Rai nel ciclo di trasmissioni Il raggio verde non ha ripristinato la completezza e l’imparzialità dell’informazione», e questo perché «il conduttore del programma ha inteso influenzare le scelte di voto dei telespettatori, mostrando palesemente i propri orientamenti politici a favore della coalizione del centrosinistra e, in conseguenza delle modalità di conduzione e gestione della trasmissione, ponendo la coalizione di centrodestra in una situazione di oggettivo svantaggio», violando «i principi di parità di trattamento e di completezza, imparzialità e obiettività dell’informazione». Non una frase, un’affermazione, una battuta di Santoro viene citata a suffragio di queste apodittiche conclusioni. Figurarsi se l’Authority dovesse giudicare i talk show americani e inglesi, che si nutrono di scandali politici, anche e soprattutto nelle campagne elettorali. Il raggio verde è come un rotocalco di attualità: va dove lo portano le notizie, parla dei temi della settimana, a nessuno verrebbe in mente di imporre all’«Espresso» o a «Panorama» la par condicio negli argomenti e nelle scelte editoriali: proprio quello che l’Authority teorizza in questa sentenza. Se in America scoppia lo scandalo Clinton, giornali e tv parlano dello scandalo Clinton, senza doverne cercare uno equivalente sul suo avversario politico. In Italia si candida un signore imputato, circondato di pregiudicati, e per giunta proprietario di tre televisioni: di questo parla tutta la stampa, italiana e internazionale, e di questo parla anche Santoro. Ma quello che fa l’informazione libera, alla Rai non è consentito. O si trova qualche pregiudicato e imputato per mafia al fianco del leader del centrosinistra, o si trova un leader dell’Ulivo con tre televisioni, oppure non si parla nemmeno del leader del centrodestra. Questa è, per l’Authority, la completezza e l’obiettività dell’informazione. Un abominio, contro cui nessun «liberale» – salvo i soliti tre o quattro «demonizzatori» – dice una parola.
Ma c’è di più. Nel periodo di fuoco che va dal 10 marzo al 20 aprile, dal caso Satyricon alla vigilia della puntata riparatoria con Dell’Utri, Il raggio verde ha dato più spazio al Polo che all’Ulivo. Sì, proprio così: dai dati del Centro di ascolto dell’informazione radiotelevisiva (l’Osservatorio di Pavia), elaborati dalla Rai il 26 aprile 2001, risulta che in quei quaranta giorni cruciali gli esponenti del Polo hanno parlato il doppio di quelli dell’Ulivo: 163 minuti e 12 secondi contro 85 minuti e 43 secondi, vale a dire il 49% del tempo disponibile contro il 26%. Una prevalenza schiacciante del centrodestra, che non si riequilibra nemmeno se si aggiungono all’Ulivo due formazioni affini, anche se non alleate e concorrenti: Rifondazione comunista (18 minuti e 18 secondi, pari al 5,6%) e Lista Di Pietro (34 minuti e 56 secondi, pari al 10,6%), mentre la Lista Bonino-Pannella fa storia a sé (27 minuti 47 secondi, 8,4%).
Ma nemmeno questo basta all’Authority, geniale invenzione dei governi di centrosinistra subito finita nelle grinfie della partitocrazia e divenuta l’ennesimo fucile puntato contro la libertà d’informazione. A farne parte, infatti, non sono personalità super partes, esperti di comunicazione e informazione, ma per lo più uomini lottizzati dai partiti. Il presidente Enzo Cheli, giurista di fama, vicino a Giuliano Amato, già consigliere Rai e giudice costituzionale, troneggiava nell’Assemblea socialista di Craxi, quella dei «nani e ballerine». Al suo fianco siedono quattro commissari del Polo: Alfredo Meocci, Mario Lari, Alessandro Luciano e Antonio Pilati e quattro del centrosinistra: la diessina Paola Manacorda; Giuseppe Sangiorgi, ex collaboratore di De Mita e marito della giornalista Rai Anna Scalfati; il diniano Silvio Traversa, che spesso si schiera col Polo; Vincenzo Monaci, indicato da Bertinotti ma quasi sempre d’accordo col centrodestra. In pratica, sulle decisioni importanti, destra batte sinistra 6 a 3.
Dinanzi al verdetto dell’Authority, il presidente Zaccaria potrebbe patteggiare, versando subito 40 milioni, e chiuderla lì. Invece difende l’equilibrio del programma, ne fa una questione di principio e si appella al Tar del Lazio. L’Authority, sfumata la transazione, quintuplica la multa portandola a 200 milioni. La causa si trascinerà per mesi, anche perché a rappresentare Forza Italia è l’avvocato Romano Vaccarella, il civilista di Previti e Berlusconi, che nel 2002 viene promosso dal Parlamento (anche coi voti del centrosinistra) giudice costituzionale e non può più assistere i suoi clienti.La causa si interrompe e dev’essere «riassunta». Cioè ricominciare daccapo. Intanto la Rai cambia gestione e quella di centrodestra, diretta da Cattaneo, si guarderà bene dal riassumerla davanti al Tar. Così Santoro, non essendo parte in causa, non potrà mai difendersi né il Tar pronunciarsi sulla correttezza o meno della sanzione.