Due torri, due voci
Il premier non perde tempo e comincia subito ad attivarsi per occupare militarmente la Rai. Ma gli occorre qualche mese di tempo e in autunno, prima che ci riesca, sia Biagi sia Santoro ripartono con i loro programmi per quella che sarà la loro ultima stagione prima della Grande Epurazione.
L’attacco alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, costringe Santoro e i suoi ad anticipare i tempi del nuovo programma. In uno studio improvvisato al Teatro delle Vittorie, il 13 settembre, parte su Rai2 Emergenza guerra. Serate di controinformazione a più voci contro il pensiero unico che marcia a tappe forzate, dalla Casa Bianca a Palazzo Chigi a Porta a Porta.
Poi, il 23 novembre, inizia Sciuscià Edizione Straordinaria, che si occuperà ancora di Afghanistan e di terrorismo. Ma anche di giustizia, con la guerra preventiva scatenata dal governo Berlusconi contro i giudici di Milano per bloccare con ogni mezzo i processi «toghe sporche». Il 7 dicembre si parla del caso Previti, all’indomani dell’incredibile voto del Senato contro il tribunale di Milano, «reo» di aver interpretato la nuova legge sulle rogatorie e una sentenza della Corte costituzionale in senso contrario alle aspettative dei deputati (e soprattutto degli imputati) della maggioranza. Nemmeno il fascismo aveva mai osato tanto contro l’indipendenza della magistratura. Il sottosegretario all’Interno Carlo Taormina chiede l’arresto dei giudici di Milano ed è costretto a dimettersi. Il vertice dell’Anm si scioglie per protesta. I segugi di Santoro vengono sguinzagliati alle calcagna di Previti. Formigli lo sorprende all’uscita di casa Squillante, cioè del suo principale coimputato. «Ho accompagnato mio figlio in palestra», balbetta il deputato-imputato. Ma Squillante lo smentisce: «Sì, è venuto da me». Lo stesso Formigli intervista i soci del Circolo Canottieri Lazio (il club dove, secondo l’accusa, Previti consegnò almeno una mazzetta al giudice), e ne trova uno che conferma di avervi visto Stefania Ariosto: circostanza sempre negata da Previti. Il reportage documenta anche le ripetute assenze di Cesarone dalle aule parlamentari fino all’inizio del processo, quando invece l’onorevole divenne un deputato modello e non mancò più a una sola seduta, facendo così slittare le udienze al Tribunale di Milano. Santoro gli chiede un’intervista o una presenza in studio. Ma, anziché rispondere alle domande, Previti fa di tutto per bloccare la trasmissione, denunciandola al Garante della privacy e poi al tribunale di Roma per fantomatiche violazioni della sua riservatezza. Le pressioni sui vertici Rai sono inimmaginabili. Per la prima volta nella sua carriera, Santoro è costretto a far visionare il reportage al direttore generale Claudio Cappon. Alla fine, dopo un’ora di conciliaboli con l’ufficio legale, Cappon dà il via libera alla messa in onda. La trasmissione, come sempre, è equilibrata: in studio, a difendere le posizioni di Previti e del Polo, ci sono il sottosegretario Jole Santelli, l’onorevole Chiara Moroni e Arturo Diaconale; dall’altra parte della barricata, Antonio Di Pietro e Anna Finocchiaro (Ds). Ma i fatti parlano da soli. Chi vuol capire capisce. Previti chiederà a Santoro, con un’apposita causa civile, 2 miliardi di danni senza riuscire a contestargli un solo elemento falso: l’unica colpa è essersi occupato di lui. Quella delle cause civili è un’altra arma intimidatoria per mettere in difficoltà i personaggi scomodi agli occhi del vertice Rai. E per tappare loro la bocca, delegittimandoli con il decisivo argomento che, essendo denunciati, sono parte in causa e dunque non più «imparziali»; ma soprattutto, dovendo sostenere il giudizio, la Rai preferisce non occuparsi più di chi l’ha denunciata per non pregiudicare l’esito del processo. Oltre a intimidire, le denunce servono anche a censurare.
Resistere, resistere, resistere
Gennaio 2002. Il governo Berlusconi depenalizza di fatto il falso in bilancio, mandando in fumo quattro processi a carico di Berlusconi. E toglie la scorta a decine di magistrati in prima linea, compresa Ilda Boccassini. Il 12 gennaio 2002, inaugurando il suo ultimo anno giudiziario, Francesco Saverio Borrelli invita la cittadinanza a «resistere, resistere, resistere» al «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo estremo baluardo della questione morale». L’appello viene raccolto da migliaia di cittadini che organizzano «girotondi» in tutta Italia in difesa dell’indipendenza della magistratura. Il 18 gennaio se ne parla a Sciuscià. Per il centrodestra sono invitati l’avvocato del premier, Niccolò Ghedini, e l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino (Udc). Per il centrosinistra, Francesco Rutelli. Poi Marco Travaglio, che torna in tv dieci mesi dopo il caso Luttazzi. Ma il direttore di Divisione Leone e il capo dell’ufficio legale Esposito si oppongono alla sua presenza: sostengono che, essendo stato denunciato insieme alla Rai da Berlusconi & C., non può più comparire nella tv pubblica. Tesi assai singolare: chi volesse cancellare dai teleschermi un personaggio sgradito non avrebbe che da denunciarlo. E poi molti altri giornalisti della Rai o ospiti della Rai subiscono denunce, a cominciare da Bruno Vespa: come mai vanno in onda indisturbati? Pomicino è stato condannato con sentenza definitiva per finanziamenti illegali e corruzione, ma su di lui nessuno trova nulla da obiettare. Freccero però tiene duro e, alle lettere dell’azienda che gli intimano di non far entrare Travaglio, replica: «La battaglia è aperta, censura assolutamente mai, il motto di Borrelli è anche il motto di Rai2: resistenza, resistenza, resistenza». Santoro è sulla stessa linea: senza Travaglio la puntata non va in onda. Dal Cda, i due membri del Polo Contri e Gamaleri tuonano: «è un atto di pura provocazione». Alla fine Santoro e Freccero scrivono a Cappon: il primo assicura di aver «recepito il forte richiamo di responsabilità dell’azienda, che non è un divieto» e garantisce che Travaglio, se non provocato, non entrerà nel merito del caso Satyricon; il secondo si assume la piena responsabilità della partecipazione del giornalista. Cappon, sollevato, dà il via libera. Zaccaria è soddisfatto, ma annuncia che se ne dovrà riparlare nel prossimo Cda: «è chiaro che non possono essere in alcun caso invocate regole limitatrici, costruite ad hoc e in contrasto con i fondamentali principi costituzionali, primo fra tutti quello che sancisce la presunzione di non colpevolezza delle persone». La puntata va in onda, combattuta ma corretta, finché Previti chiama in diretta alla maniera del Capo, giurando che non ha mai inteso sottrarsi al processo, né ritardarlo con vari pretesti. Dopo cinque minuti di arringa, Santoro lo sfuma e lo invita a una prossima puntata in studio. Ma Previti non verrà: sceglierà le più confortevoli poltrone di Porta a Porta.
L’8 febbraio Ciampi ricorda che «non c’è una democrazia sana se non c’è pluralismo dell’informazione, sia nella carta stampata, sia nel sistema radiotelevisivo». Berlusconi gli fa subito il verso da Cáceres (Spagna): «La Rai del centrosinistra, durante le ultime elezioni politiche, ha messo in atto un attentato alla democrazia, con un continuo killeraggio politico che ha fatto perdere 17 punti percentuali alla Cdl. Nel marzo 2001 Datamedia mi assegnava un indice di fiducia del 64% e allora cominciò l’offensiva della Rai di Zaccaria con i suoi Travaglio, Santoro, Biagi, con tutta quella falsa satira che invece era un’azione volta a demolire l’immagine del leader dell’opposizione. Guardate cosa è successo: la prima settimana c’è stata una discesa di 6,5 punti, 3,5 la seconda, poi addirittura 5 nelle due settimane successive, fino ad arrivare al 47% il giorno precedente alle elezioni, che poi vincemmo con il 49,4%». Poi non resiste alla tentazione di dare la linea alla nuova Rai: «Nella mia Rai [sic] non ci sarà un Santoro né un Biagi né un Travaglio di centrodestra. Noi abbiamo davvero un’anima liberale…». Santoro replica mostrando, in un grafico, l’enorme spazio riservato agli uomini del Polo nella Rai «occupata dai comunisti»: Saccà a Rai1, Vespa per quattro sere la settimana a Porta a Porta, Leone alla Divisione Uno (e poi a Raicinema), Mimun al Tg2, Esposito (vicino ad An) all’ufficio legale, La Rosa a Telecamere, Valzania a Radio2 e così via.
E proprio questo contestano i girotondi all’Ulivo: la corrività nei confronti di Berlusconi nell’ultima legislatura e l’opposizione troppo morbida in quella nuova. Santoro organizza una puntata di Sciuscià sulla crisi che lacera l’opposizione. In studio Fassino, i professori fiorentini Paul Ginsborg e Francesco Pancho Pardi, le giornaliste Maria Laura Rodotà e Lucia Annunziata. Ne vien fuori un durissimo processo all’Ulivo, ma la Cdl trova il modo di protestare: «è un programma a senso unico», strilla Schifani in un’imbarazzante telefonata in diretta.
Il 23 gennaio, in un’intervista al «Corriere», Santoro lancia un’idea per il nuovo vertice Rai: «L’opposizione, anziché comportarsi come se il rinnovo dei vertici Rai fosse una normalissima scadenza, e di preoccuparsi dei nomi dei consiglieri riservati al centrosinistra, dovrebbe chiedere un presidente di garanzia, che tuteli il 50% di italiani che non ha votato per Berlusconi e ha diritto di vedere rappresentate nella Rai le proprie idee. La vera battaglia è sul presidente garante»: una figura super partes, di grande prestigio, che sfugga alle logiche di maggioranza e opposizione, e tenga al riparo il servizio pubblico dal conflitto d’interessi berlusconiano. Nessuno gli dà retta, anche se la proposta verrà ripescata un anno più tardi. Riveduta e corretta. Anzi, corrotta.
«Perché non vai a Mediaset?»
Se ne parla anche al Costanzo Show, il 19 febbraio, in un dibattito con Santoro, il forzista Romani, Landolfi di An e il consigliere Rai Alberto Contri. «Sei fazioso, Santoro, ammettilo», attacca Romani, «sei un ottimo professionista, ma il simbolo di una tv di parte». «Faccio una televisione scomoda, ma non di parte», ribatte Santoro: «Un giornalista non si deve preoccupare di fare una tv parziale o imparziale, ma di dire la verità». Poi tocca a Landolfi: «Non è corretto che lei usi la tv pubblica come una tribuna delle sue personali inquietudini, per fare propaganda alle sue idee». E Santoro: «Lo schematismo che io sarei un giornalista organico alla sinistra non regge proprio. Lo dimostrano i tanti programmi che ho fatto, scomodi anche per la sinistra. Nell’ultima campagna elettorale, come Biagi e Montanelli, non volevo che un signore proprietario di tre reti diventasse presidente del Consiglio senza una seria discussione pubblica». Appena si spengono le telecamere, la rissa si scioglie nel solito chiacchiericcio da terrazza romana. Romani e Landolfi si avvicinano a Santoro e, fra un sorriso e un ammiccamento, gli buttano lì: «Michele, rassegnati: alla Rai non c’è più posto per te. Perché non torni a Mediaset?».
Il 22 febbraio il nuovo Cda Rai è cosa fatta. Ed è anche cosa loro: tre consiglieri alla destra (Baldassarre, Staderini e Albertoni) e due alla sinistra (Donzelli e Zanda). Tutti contenti nel Palazzo. Il nuovo presidente Antonio Baldassarre precisa subito che di tv non sa nulla. E lo dimostra fattivamente, spiegando di non amare «il giornalismo aggressivo». Cioè il giornalismo tout court, come si presenta in tutte le democrazie. Con chi ce l’abbia è chiaro a tutti, anche se si guarda bene dal fare nomi. Anzi, giura che lui vuole una Rai pluralista, lontana dai partiti, indipendente come la Banca d’Italia. Promette «massima collegialità nel Cda», giura che «chiunque abbia professionalità, in Rai sarà protetto dal presidente», mentre «finora i giornalisti Rai sono stati umiliati dalla lottizzazione, contro la quale mi batterò». Naturalmente farà l’esatto contrario. Sgarbi lo invita a chiudere Il fatto e Sciuscià. Verrà presto esaudito.
Il 23 febbraio «MicroMega» convoca i cittadini al Palavobis per i dieci anni di Mani Pulite. Arrivano 40 mila persone. Due giorni dopo i professori di Firenze Paul Ginsborg e Pancho Pardi invitano D’Alema a discutere nella fossa dei leoni, tra fischi e applausi. Se ne parla a Sciuscià, con Paolo Flores d’Arcais, Fausto Bertinotti, Giovanna Melandri e alcune «girotondine»: un’altra puntata sulle turbolenze nel centrosinistra, un altro processo all’Ulivo. Ma il solito Schifani, in astinenza da video, protesta per non essere stato invitato e comunica all’Ansa: «Sto vedendo Sciuscià e Santoro sta facendo un uso criminoso della tv pubblica». Un’espressione che farà fortuna.
Il 5 aprile Berlusconi profitta del congresso di An a Bologna per influenzare le prossime nomine dei direttori Rai: «Solo fra una settimana ci sarà qualche possibile cambiamento e, dobbiamo esserne tutti orgogliosi, non ci saranno mai un Biagi, un Luttazzi, un Santoro di centrodestra che attaccheranno la sinistra. Noi non useremo mai in modo criminoso la televisione pubblica pagata con i soldi di tutti». Infatti il Cda nomina direttore di Rai1 un ex deputato di Forza Italia, Fabrizio Del Noce; direttore di Rai2 un ex deputato e sottosegretario leghista, Antonio Marano; vicedirettore di Rai2 l’editorialista del «Giornale» Antonio Socci. Nel Cda siede un assessore regionale della Lega, Ettore Albertoni, che neppure riterrà opportuno lasciare l’incarico politico. Vicedirettore delle tribune politiche Simonetta Faverio, ex deputato ed ex capoufficio stampa della Lega. Vicedirettore del Marketing strategico: l’ex assistente di Berlusconi, Deborah Bergamini. Capo della sede Rai di Milano: l’ex presidente leghista della provincia di Varese, Massimo Ferrario. Il berlusconiano Mimun viene promosso al Tg1. Al Tg2 va Mauro Mazza, in quota An. Diversamente dall’Ulivo, che aveva lasciato Rai1 e Tg2 all’opposizione, la Casa delle Libertà occupa militarmente le prime due reti e i primi due tg, relegando l’opposizione nella riserva indiana di Rai3 e del Tg3, avendo cura di scorporarne i notiziari regionali, affidati ad Angela Buttiglione, sorella del ministro Rocco. Confermato al Tg3, il direttore Antonio Di Bella ringrazia la maggioranza e precisa che il suo telegiornale dovrà ispirarsi a «Repubblica», mentre Sciuscià gli ricorda «il manifesto». L’accerchiamento a Santoro si stringe. Anche a sinistra.
Dal nostro duce in Bulgaria
Il 18 aprile, nuovi ordini di scuderia da Sofia. Oltre alle accuse di «uso criminoso della televisione pubblica», Berlusconi aggiunge che i costi di una risoluzione del contratto di Santoro non sono un problema suo. Santoro replica per le rime: «Berlusconi è un vigliacco, abusa dei suoi poteri per attaccare persone più deboli di lui, alle quali non concede diritto di difesa». La sera dopo Sciuscià s’intitola «Fuori chi?». Si parla – come programmato da tempo – dell’articolo 18, ma anche della lista di proscrizione. Mario Landolfi di An ed Emilio Fede, che nei giorni precedenti avevano accettato l’invito in studio, si allineano al padrone e si ritirano all’ultimo momento. Santoro li rimpiazza in corsa con Diaconale e Battista, per dibattere con Rutelli e Maltese. Ed entra in studio canticchiando Bella Ciao con voce roca e volutamente stonata. Poco prima ha dovuto subire l’ennesimo assalto del Polo. Alle 20,15, a tre quarti dalla messa in onda, Saccà ha telefonato per rivoluzionare lo studio: «La Cdl ha designato Schifani per sostituire Landolfi. Devi farlo venire a tutti i costi». Santoro ha risposto picche: «Gli inviti li faccio io, il responsabile del programma sono io. Landolfi aveva accettato, poi ha cambiato idea. Peggio per lui. Non siamo a tribuna politica, nessuno può autoinvitarsi, non prendo ordini da nessuno». Concita De Gregorio, che si aggira negli studi per un pezzo di colore, origlia parte della telefonata e racconta tutto su «Repubblica». Saccà pensa che l’abbia informata Santoro e annuncia due lettere di richiamo. Che non arriveranno mai. Schifani parla di «censura ad personam contro un esponente del centrodestra indicato dal proprio partito». Cioè lui.
Il giorno dopo è sabato. In mattinata, nel giro di poche ore, Flores d’Arcais organizza con Nanni Moretti e gli altri leader dei girotondi una manifestazione di protesta contro il diktat bulgaro al teatro Ambra Jovinelli. Per gli inviti, solo un passaparola via e-mail, radio e telefono. Nel pomeriggio accorrono in cinquemila: mille riescono a entrare, gli altri rimangono fuori, davanti a un megaschermo, ad ascoltare Flores, Moretti, Serena Dandini, Fiorella Mannoia. Quando arriva Santoro, cantano Bella Ciao. Intonati, però. Moretti si appella a Ciampi, chiedendo un messaggio alle Camere contro la censura: «Qualche suo silenzio» dice «anziché rispettoso del ruolo di garante della comune libertà che la Costituzione le assegna, è stato troppe volte interpretato dal capo del governo come un via libera alle proprie insopprimibili pulsioni antidemocratiche».
Se l’Italia dei movimenti reagisce, l’opposizione dei partiti balbetta, o si volta dall’altra parte. Il massimo dell’indignazione che riesce a esprimere il suo leader Piero Fassino è una denuncia sul «rischio di conformismo informativo». Bella Ciao riecheggia alle manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio. L’Associazione partigiani ringrazia Santoro per aver cantato l’inno della Resistenza. E il 25 aprile, sotto casa sua, compare uno striscione firmato dai neofascisti di Forza Nuova: «Santoro: dal soldo berlusconiano al finto partigiano». Il leader forzanovista, Roberto Fiore, spiega che è la risposta a Bella Ciao: «Quello che ha fatto dimostra ancora una volta che le sue trasmissioni sono faziose e possono generare odio. Non dovrebbe avere lo spazio che ha». Santoro chiama la Digos e denuncia che venerdì notte, mentre andava in onda Sciuscià, qualcuno aveva bloccato con una catena il cancello della sua abitazione. «è normale» commenta Fiore «queste cose capitano a chi semina odio». Poi annuncia che, in occasione di un sit-in romano a sostegno della candidatura di Jean-Marie Le Pen alla presidenza della Repubblica francese, Forza Nuova lancerà una sottoscrizione per chiedere alla Rai di «licenziare Santoro o almeno tagliargli lo stipendio». L’accusa è la stessa che gli rivolge la Casa delle Libertà: «Santoro è colpevole di utilizzare il servizio pubblico per fare propaganda per una parte politica attaccando e denigrando le altre, in particolare un movimento scomodo come Forza Nuova».
Il 23 aprile, intanto, Baldassarre e Saccà vengono convocati in Vigilanza per parlare del diktat bulgaro. Il presidente definisce Biagi e Santoro «un patrimonio professionale del servizio pubblico» e promette: «l’azienda farà di tutto per non privarsi del loro apporto come giornalisti. Con Santoro ho avuto ieri un incontro di due ore, buono e molto costruttivo. Ma gli ho ricordato i doveri di un giornalista del servizio pubblico: massima imparzialità e osservanza della regola della par condicio nelle presenze politiche» (non sa, Baldassarre, che la par condicio, fuori dalla campagna elettorale, non esiste). Saccà invece ha parole di comprensione per l’amico premier, ma assicura che «nessuno mi ha mai chiesto di fare epurazioni». Poi si fa intervistare dal «Foglio» per annunciare che il format di Sciuscià «è superato»: Santoro potrebbe dedicarsi più proficuamente «a programmi di scienza, cultura, costume e storia». Sciuscià non ha ancora un anno di vita, è il solo programma Rai di informazione in prima serata, fa ascolti da record, ma per il nuovo direttore generale è già «superato». Il diktat bulgaro di Berlusconi, naturalmente, non c’entra: «Scelte editoriali».
In attesa di occuparsi di botanica, Santoro segue la clamorosa inchiesta della Procura di Napoli sulle violenze dei poliziotti contro i no-global nella primavera del 2001, regnante ancora l’Ulivo. In studio ne discutono Violante per la sinistra e La Russa per la destra, oltre a varie vittime dei pestaggi e all’avvocato degli agenti arrestati. Perfetto equilibrio, come sempre. Ma quel che avviene nella realtà, ormai, non conta più nulla. Ciò che importa è calunniare, infangare, inventare ogni giorno false accuse e pretesti inesistenti per giustificare preventivamente l’epurazione che verrà. Così Forza Italia presenta all’Authority l’ennesimo esposto contro Sciuscià: «Viene lanciato un sondaggio Abacus dal quale emerge che per il 58% degli italiani i magistrati di Napoli bene hanno fatto a spiccare degli ordini di arresto a danno di alcuni esponenti delle forze dell’ordine». Anche se così fosse, non ci sarebbe nulla di scorretto. Ma il sondaggio non esiste: non è stato mai trasmesso. Se l’è inventato, su due piedi, Forza Italia.
Un altro pretesto, sempre invocato, è la multa dell’Authority per la puntata con Dell’Utri, peraltro non definitiva visto il ricorso della stessa Rai al Tar. E, nell’ultima campagna elettorale, l’Authority ha aperto ben 152 procedimenti per altrettante, pretese violazioni della par condicio, condannando quattro volte Mediaset e cinque la Rai (Tg1, Tg3, Rai1, Rai3 e Il raggio Verde). Ma si parla solo di Santoro.
Salvate il soldato Vespa
Le elezioni amministrative incombono. La Casa delle Libertà fa onore alla sua ragione sociale chiedendo alla Vigilanza di chiudere tutti i programmi di informazione Rai: Il fatto, Sciuscià, Primo Piano e persino Porta a Porta. Pur di imbavagliare Biagi e Santoro, i berluscones sono disposti a sacrificare l’amico Vespa come scudo umano. Anche a lui, con tutto quel che ha fatto per loro, tocca l’accusa di «faziosità». La proposta comunque viene respinta: «Bloccare i programmi» spiega Cheli «è fuori dal quadro costituzionale». Ma il polverone non resta senza conseguenze: Saccà coglie la palla al balzo per sposare la proposta del «doppio conduttore» lanciata, in ossequio a una malintesa par condicio, dal solito Giuliano Ferrara e riservata in esclusiva a Sciuscià. Non, per esempio, a Porta a Porta. Sempre in nome della par condicio, s’intende.
Il diktat bulgaro fa altri proseliti. Marano, direttore di Rai2, come già Saccà per Il fatto, annuncia che Sciuscià potrebbe cambiare «giorno e fascia oraria»: «Santoro è un giornalista carismatico e sa usare il mezzo televisivo. Purtroppo ha anche la sua faziosità. Peccato che ora non lo guardi più quel grande pezzo d’Italia che ha idee diverse dalle sue e considera l’obiettività un valore chiave della buona informazione».
«Il Foglio», fornitore ufficiale di argomenti «intelligenti» alle ragioni del più forte e di giustificazioni «alte» alla bassa cucina degli epuratori, avvia subito un ampio dibattito sulla «faziosità» (da qual pulpito!) di Santoro «Conduttore Unico delle Coscienze». Scrive Ferrara: «Non vogliamo formule giornalistiche il cui contraddittorio, che deve essere una regola professionale e civile, sia invece la generosa, eventuale e precaria elargizione di un principe o padrone dello schermo, di un Conduttore Unico delle Coscienze». Anziché seppellirlo sotto una gragnuola di risate, a sinistra c’è chi lo prende sul serio. Il solito Petruccioli, presidente della Vigilanza, tuona contro i «feudatari» della tv che «decidono il tema, gli ospiti, la regia, il pubblico, in modo autonomo e sovrano». Ciò che in qualunque altra democrazia è la norma – l’autonomia delle redazioni – in Italia diventa uno scandalo. Anche all’opposizione. Invano Furio Colombo, che di democrazie vere se ne intende avendo vissuto negli Stati Uniti, ricorda quel che avviene oltre Oceano: «è talmente importante, essenziale e simbolico il ruolo del conduttore, che i personaggi titolari di quella funzione non si alternano mai». Di par condicio si discute a Sciuscià il 17 maggio, con Gasparri, Fassino e il professor Giovanni Sartori, che dà del pluralismo una definizione definitiva: «Pluralismo è dare la libertà a tutti di dire liberamente quello che vogliono».
Negli stessi giorni Marano convoca Santoro e Ruotolo. Conferma la programmazione estiva dei documentari Sciuscià in seconda serata, chiede notizie sul programma Donne a cura della stessa redazione, che sarà condotto da Luisella Costamagna. Poi confida: «Non vi nascondo che, per la prossima stagione, voi siete un bel problema politico. Sappiate che il vostro futuro non dipende da me». Non è una novità. Biagi parla di epurazione «per conto terzi». E Per conto terzi? è il titolo della penultima puntata di Sciuscià, il 24 maggio. Santoro invita Costanzo con l’intenzione di metterselo accanto: un po’ per ironizzare sulla «doppia conduzione», un po’ per riservarsi la possibilità di intervenire su una questione che lo riguarda in prima persona. Gli altri invitati sono l’ex presidente Zaccaria, il direttore del Tg5 Mentana, Marcello Veneziani, i giornalisti Maltese e Belpietro e due politici: Pecoraro Scanio per i Verdi e Adornato per Forza Italia. Massimo equilibrio, ancora una volta. Ma, come al solito, le ultime ore prima di andare in onda sono tempestate di telefonate di fuoco: oltre a quella abituale di Saccà, ne arriva una di Marano, che non gradisce Zaccaria e nemmeno il ruolo assegnato a Costanzo: niente doppia conduzione, Costanzo rappresenta «la concorrenza». Marano contesta pure, preventivamente, il tema della puntata, sostenendo che potrebbe gravemente danneggiare la Rai. Per la prima volta i vertici Rai s’intromettono addirittura nei linguaggi e nei contenuti di un programma.
Tartufi e «Sciuscià»
Santoro escogita un compromesso: Costanzo starà nel centro dello studio, al suo fianco, ma la trasmissione sarà condotta come sempre da lui. Osserva Costanzo: «Oggi a Mediaset c’è più libertà che in Rai». Una constatazione di puro buonsenso, che però farà imbestialire Saccà & C. Certe cose si fanno, ma non si dicono. Poi Mentana, Adornato, Veneziani e Belpietro fanno a gara a minimizzare l’ukase bulgaro del premier e i pericoli di epurazione. Mentana sorride: «Biagi e Santoro sono regolarmente in Rai. Se qualcuno volesse toglierli, dopo il discorso di Berlusconi a Sofia sarebbe ancora più difficile. Non vorrei invece che il problema fosse soltanto la collocazione alle 20,40 di Biagi, che è una cosa completamente diversa. Biagi, fra l’altro, è il giornalista più forte d’Italia. Comunque, se vogliono togliere Biagi e Santoro, noi ci mettiamo qui». «E non ci muoviamo più!», chiosa Costanzo, impegnandosi a cantare Contessa se Il fatto e Sciuscià dovessero sparire. «Ma si accettano scommesse che ciò non accadrà!», vaticina Veneziani. Adornato rassicura: «Berlusconi non ha licenziato nessuno. Berlusconi non può licenziare nessuno. Santoro è una risorsa e nel palinsesto ci deve rimanere, io sono d’accordo con Costanzo». Veneziani getta il ricciolo oltre l’ostacolo: «Io faccio zapping e trovo in tv Santoro e Biagi. Dov’è allora il regime di Berlusconi? Sottoscrivo qui che, se ci dovesse essere una censura politica nei confronti di Santoro e Biagi, anch’io scenderò in piazza per impedirlo, per manifestare in loro difesa. Ma siamo nel surrealismo, la realtà è tutt’altra. Non ho mai sentito epurazioni annunciate pubblicamente. Sono dei pareri ingenui, perfino rozzi. Ingenui perché di solito le epurazioni si fanno sorridendo, senza mai annunciarle. Se Berlusconi ha detto queste cose, ha sicuramente sbagliato nell’espressione, ma sicuramente questo non produrrà un effetto politico, quindi mi sembra una operazione-martirio fatta a priori: è una forma assicurativa in cui si chiede il risarcimento prima del danno, ecco, mi sembra un errore». La stessa tesi svilupperà, con il consueto acume, Bruno Vespa nel libro Rai, la grande guerra: «Con la sua battuta, Berlusconi firmò ai due (Luttazzi non era sotto scrittura) un contratto vitalizio alla Rai e gli appuntò sul petto la medaglia d’oro di martiri della Resistenza». Insomma, il diktat bulgaro è un gentile omaggio di Berlusconi a Biagi e Santoro. Di che si lamentano?
Maltese ricorda che in fondo, a minimizzare il diktat bulgaro, sono tutti dipendenti del Cavaliere. Apriti cielo: Mentana (direttore del Tg5), Costanzo (già direttore di Canale 5, ora conduttore di due programmi, oltre ai due della moglie), Veneziani (editorialista del «Giornale») e Belpietro (direttore del «Giornale») saltano su come la rana di Galvani alla scossa elettrica, sdegnati per essere stati descritti per quello che sono: «Non siamo dipendenti, che diamine!». Lo dimostreranno presto, quando l’editto bulgaro si realizzerà. Costanzo reciterà un pezzettino di Contessa, il più innocuo. Adornato non dirà una parola, se non per plaudire all’epurazione dei due giornalisti. L’eroico Veneziani non scenderà in piazza: salirà invece i gradini di viale Mazzini, promosso consigliere di amministrazione e darà una mano a tener lontani Biagi e Santoro dalla Rai, avallando altre censure ed epurazioni. Mentana, come sempre, cambierà discorso.
L’indomani Saccà trascina Sciuscià dinanzi al Cda, riscontrandovi «gli estremi di violazione delle norme aziendali e contrattuali». Il tutto per la frase di Costanzo e per la «doppia conduzione» annunciata e poi ritirata. Santoro replica: «Costanzo non ha insultato la Rai, s’è limitato a dire che a Mediaset c’è più libertà. E io non mi sono affatto associato: come conduttore, ho messo la sua frase in discussione. Come potevo censurare l’opinione di un ospite? Quanto alla doppia conduzione, che non ho peraltro realizzato, ricordo che nel 1999 Rai1 diretta da Saccà mandò in onda con Canale 5 una staffetta Vespa-Costanzo sulla guerra nel Kosovo. E dieci anni prima, nella Rai di Pasquarelli, realizzammo un’altra celebre staffetta con Costanzo: quella Rai3-Canale5 contro la mafia dopo l’assassinio di Libero Grassi». Ma è tutto inutile. La Rai è a caccia di pretesti per giustificare ciò che sta per fare. Saccà chiede un triplice parere sul comportamento di Santoro, all’ufficio legale e a due avvocati esterni.
Sciuscià, il 31 maggio, chiude da dove aveva cominciato: dall’Afghanistan. Ospite d’onore il medico fondatore di Emergency, Gino Strada. Santoro saluta il pubblico: «Ci rivediamo a settembre, almeno spero».
Il 4 giugno si rifà vivo Baldassarre: «Noi abbiamo dato a Santoro delle direttive, degli indirizzi, e Santoro li ha tutti violati. Si deve dare una regolata. Adesso il Cda dovrà esaminare il caso e vedere se ci sono da parte di Santoro delle gravi violazioni». L’indomani «Il Giornale» anticipa, in esclusiva, il fulmineo verdetto degli avvocati interpellati da Saccà, prim’ancora che qualcuno si degni di contestare a Santoro le sue presunte violazioni. Titola il quotidiano del premier: «La Rai può licenziare Santoro: ecco perché». Il professor Oberdan Scozzafava è il più duro: ipotizza addirittura «sanzioni risolutive», cioè il licenziamento, perché Santoro sarebbe «venuto meno al dovere di fedeltà verso l’azienda, dato che ha accreditato l’immagine di una Rai riserva di interessi esterni».
Il Cda si riunisce una settimana dopo, mentre l’Italia è concentrata sui mondiali di Corea e Giappone. Zanda, consigliere di minoranza, chiede di fare chiarezza sul futuro di Biagi e Santoro. I tre della maggioranza rispondono che ciò «non rientra fra i punti all’ordine del giorno». Nessuna notizia – salvo che sul «Giornale» – dei tre pareri legali contro Santoro. Saccà li tiene nel cassetto. Mancano pochi giorni all’appuntamento di Cannes, dove la Rai deve annunciare i nuovi palinsesti.
La battaglia di Cannes
A Cannes, il 22 giugno, Saccà intona il De Profundis per Il fatto mentre Marano s’incarica di liquidare Sciuscià: «L’informazione di Rai2 resterà il giovedì in prima serata, anche se non ho ancora deciso chi sarà il conduttore. Il Cda deve stabilire se sanzionare Santoro, ci sono in ballo questioni disciplinari. In Rai ci sono 1600 giornalisti che non mi pongono problemi di personalismi». Lo stesso giorno, il solito incontinente Berlusconi rincara la dose dal vertice di Siviglia: «Quando subentrano nuove gestioni si presentano anche le nuove linee editoriali. E ci saranno senz’altro programmi come quelli di Biagi e Santoro, affidati magari a conduttori diversi». Mentre la Cdl si allinea compatta, Cossiga prorompe: «Neanche i re della monarchia assoluta di Francia ebbero mai il coraggio di mettere le mani su Molière e Racine».
Il 26 giugno Saccà si ricorda di quei pareri legali nel cassetto. E li tira fuori. Non in una sede istituzionale, ma in un’intervista al «Corriere»: «Due prestigiosi studi legali esterni concordano: per comportamenti soggettivi, cioè per non avere osservato le indicazioni della direzione generale e del direttore di Rai2, e per comportamenti oggettivi, Santoro è venuto meno al rapporto di lealtà e fedeltà verso l’azienda […]. I pareri di fior di giuristi, per spiegare il vulnus all’azienda, immaginano una soluzione estrema, che la Rai non percorrerà mai […]. Però c’è un format che per la sua costruzione drammaturgica non riesce nemmeno a tutelare gli interessi dell’azienda». Santoro diventa un giornalista «licenziabile». Ma Saccà, nella sua grande magnanimità, fa sapere che non lo caccerà. Certo, non dovrà pretendere di lavorare. Anche l’apposito Baldassarre conferma: se vuole lavorare, Santoro deve cambiare (lo stesso concetto espresso da Berlusconi da Sofia), visto che finora ha agito «in spregio dei principi democratici». Poi il presidente si supera: «Trasmissioni faziose come quelle di Santoro ci sono in Venezuela, non in un paese civile». L’idea di vedere iscritto il proprio paese fra quelli incivili da un Baldassarre qualsiasi suscita l’immediata protesta diplomatica dell’ambasciatore venezuelano a Roma, Fernando Gerbasi. Interviene anche l’Osce, con una dura lettera a Berlusconi per contestargli il «gesto politico» contro Biagi e Santoro. Il premier non risponde. E non risponde nemmeno Baldassarre, quando Zanda e Donzelli chiedono la convocazione urgente del Cda. Marano comunica che, per decidere su Santoro, aspetta che il Cda si pronunci sui ventilati procedimenti disciplinari.
Santoro, processato da due mesi sui giornali in contumacia, senza possibilità di replicare e difendersi, scrive a Baldassarre e Saccà il 27 giugno:
“Signori, da quando il Presidente del Consiglio ha espresso l’avviso che la Rai debba privarsi del mio apporto, a meno che io cambi registro, sono stato sottoposto, da parte dell’Azienda, a un bombardamento di richiami, censure e avvertimenti, dei quali ho avuto notizia dai giornali. Ho così appreso che l’azienda mi fa carico di gravi inadempienze, tali da giustificare il mio licenziamento […]. Ho sinora atteso che l’azienda proceda nei miei confronti, mettendomi così in condizione di difendermi o che si consenta a me e ai miei collaboratori di lavorare come in passato. Visto che ciò non avviene e continuo a essere processato sui giornali, ho anch’io consultato uno studio legale […] per avere un parere sul comportamento da Voi tenuto nei miei confronti. Il mio avvocato mi ha detto: che l’azienda non può muovermi alcuna censura per essermi mantenuto fedele al mio pubblico, come previsto dall’art.2 dell’ordinamento professionale e dall’art.1 del contratto nazionale dei giornalisti; che lo Statuto dei lavoratori vieta ogni discriminazione di natura politica; che l’azienda non può sospendermi, di fatto, dall’attività lavorativa perché ciò è vietato dallo Statuto dei lavoratori; che i pesanti giudizi pubblicamente espressi sul mio conto dai rappresentanti della Rai sono ingiustamente lesivi della mia reputazione e configurano una violazione degli elementari obblighi di correttezza, nonché del dovere di rispettare la mia personalità di lavoratore. Vi sottopongo questo parere perché possiate confrontarlo con quello degli illustri giuristi che Vi assistono, augurandomi che ciò Vi aiuti a superare le perplessità e Vi induca a chiarirmi, nella debita forma, le Vostre intenzioni. Sono a Vostra disposizione per un confronto e mi riservo ogni diritto. Con i migliori saluti, Michele Santoro”.
Nessuna risposta. Il 4 luglio, finalmente, il Cda esamina i casi Biagi e Santoro. Alla vigilia, nel tentativo di separarli, Saccà e Del Noce sono volati a Milano per incontrare Biagi e proporgli, al posto del Fatto, una serie di «speciali». Santoro, in vacanza in Sardegna, viene invece convocato a sorpresa a Roma da Baldassarre per essere ascoltato dal Cda alle ore 11. E alle 11 si presenta accompagnato da Ruotolo e Iacona. Ma il Cda salta perché Baldassarre arriva in ritardo e, infuriati per lo sgarbo, Zanda e Donzelli lasciano la riunione. Santoro viene ricevuto da Baldassarre e Saccà. «Incontro utile e proficuo», dichiara alla fine il presidente. In realtà non s’è deciso un bel nulla. Baldassarre s’è limitato a raccomandare il rispetto di non meglio precisate «regole», senza confermare né escludere la ripresa di Sciuscià, ma promettendo di far lavorare Santoro: «Lei potrebbe occuparsi di politica, ma anche di storia…». All’uscita Saccà lo prende sottobraccio: «Guarda, Michele, è meglio che ti metti il cuore in pace. Rasségnati. Prenditi due anni sabbatici, poi vedrai che tornerà il tuo turno…».
Scene da un patrimonio
Il 9 luglio, dinanzi alla Vigilanza, Baldassarre smentisce sdegnato le voci di esclusione di Biagi e Santoro:
Chi ha scritto, dopo Cannes, che sarebbero stati esclusi dalla programmazione, ha dato voce a illazioni prive di fondamento. Ho sempre detto che Biagi e Santoro sono due pezzi del patrimonio della Rai, di cui la Rai non si sarebbe mai privata. I palinsesti presentati a Cannes erano ancora incompleti. è quindi falso che ci sia l’intenzione di escludere autorevoli personalità: l’azienda intende mantenerle tutte nel proprio ambito, soprattutto quelle che rappresentano voci dissonanti rispetto all’attuale maggioranza. […] Con Santoro abbiamo avuto un incontro estremamente positivo e costruttivo. Santoro s’è detto interessato a entrambe le nostre proposte e nel prossimo incontro definiremo la vicenda. I tempi dipendono da lui, che ora si trova in vacanza in Sardegna.
«Quello dell’esclusione dei due giornalisti – conferma Saccà – è un circo mediatico assurdo, forse ai giornali faceva comodo vendere qualche copia in più. Il direttore di Rai2 ha detto che Santoro è un grande professionista, che vi è un problema disciplinare all’esame del Cda e che si sta aspettando di vedere come si risolve per prendere delle decisioni». Donzelli e Zanda, ingenuamente, gli credono: «Oggi possiamo dire, anche formalmente, che la vicenda di Biagi e Santoro è avviata a soluzione». Non è vero nulla, ma intanto si prende tempo fino all’autunno senza decidere, così Sciuscià resterà congelato almeno fino all’anno nuovo.
L’indomani, 10 luglio, Santoro riprende carta e penna per scrivere al presidente e al Cda:
Gentile presidente, dopo l’esito incoraggiante del nostro recente incontro, pur trovandomi in vacanza, Le confermo una completa disponibilità a favorire la rapida soluzione […]. Dopo aver ascoltato le sue personali valutazioni sull’opportunità che Sciuscià prosegua, ho ritenuto che il Consiglio si pronunciasse nel merito. Qualora il Consiglio deliberasse, come io auspico, che Sciuscià continui, sarei tuttavia pronto ad aprire un tavolo di lavoro con il direttore generale per studiare nuove iniziative. Lei sa che i nuovi progetti richiedono tempo e sa anche che è impossibile sostituire, dalla sera alla mattina, con proposte equivalenti, un prodotto come Sciuscià, importante per l’ascolto, la lunga serialità, la pubblicità. Se si è finalmente avviata tra noi una vera collaborazione editoriale, è naturale che essa si concretizzi in un lavoro costruttivo, permanente e duraturo.
Ciò vale anche per la sua esortazione ad agire conformemente alle regole. Io non ritengo di aver compiuto violazioni, ma farò tutto il necessario per concretizzare le Sue esortazioni. A questo scopo mi piacerebbe sottoporre a Lei e al Consiglio le varie situazioni con le quali è costretto a misurarsi il nostro lavoro, per definire insieme una linea di condotta. Una linea naturalmente valida per me e per chiunque altro. Per una discussione di tal genere occorrerebbe qualche ora e mi auguro che nel frattempo si fissi finalmente la data di inizio delle nuove trasmissioni di Sciuscià (che noi prevediamo per la prima settimana di ottobre) rimuovendo gli ostacoli che impediscono il rinnovo dei contratti e l’espletamento delle pratiche necessarie.
Stavolta una risposta arriva, il 15 luglio, firmata Baldassarre:
Caro Santoro, La ringrazio a nome dell’azienda per la Sua lettera e per il Suo spirito collaborativo. Per quanto riguarda la ripresa delle nuove trasmissioni ed il contenuto delle stesse, ho invitato il direttore generale, unitamente ai direttori di rete, a contattarLa al fine di trovare al più presto un soddisfacente accordo. Mi è gradita l’occasione per cordialmente salutarLa.
Il 17 luglio, all’improvviso, Marano comunica al «Corriere» che su Rai2 non c’è più spazio per Sciuscià, il programma più visto della sua rete. Strano: aveva sempre garantito che, prima di decidere, avrebbe atteso la pronuncia del Cda sulle eventuali sanzioni disciplinari per il duetto Santoro-Costanzo. Sanzioni mai arrivate. Eppure ora Marano annuncia: «Io sto rimodellando, in accordo con il vicedirettore di rete per l’informazione Antonio Socci, la metodologia di lavoro. Realizzeremo una redazione di rete. Se penseremo, ad esempio, a una donna, non credo che Santoro avrà le caratteristiche necessarie. Per me servizio pubblico non è faziosità, ma equilibrio». Parola di un ex sottosegretario della Lega Nord divenuto dirigente Rai. Naturalmente alla fine non verrà scelta una donna. Verrà scelto Socci.
Il 18 luglio nuova audizione di Baldassarre alla Vigilanza. E nuove bugie. Il presidente recita ancora la parte del poliziotto buono, lasciando a Saccà quella del cattivo. Ma è un gioco delle parti finalizzato al medesimo obiettivo: mai più Sciuscià. «Sono continuati» assicura il presidente «i contatti con Santoro. Inizialmente li ho tenuti essenzialmente io, in quanto autore della “linea” per così dire trattativista, cioè dello sforzo massimo di trattenere Santoro all’interno della Rai. Ora che il Consiglio e tutti i dirigenti si sono convinti che questa è la linea più corretta ho dato mandato al direttore generale di seguire nei dettagli, insieme ai direttori di rete, un modo per inserire l’apporto professionale di Santoro all’interno dei palinsesti. è in corso una discussione tra Santoro e i direttori delle reti su questo, e mi auguro che si giunga a un esito positivo».
Il 23 luglio, finalmente, batte un colpo il presidente Ciampi con il suo primo messaggio ufficiale alle Camere, dedicato al pluralismo dell’informazione minacciato «dalle posizioni dominanti». Il riferimento, per chi ha orecchi per intendere, è chiarissimo. Invece la Casa delle Libertà lo capovolge, arrivando a sostenere che Ciampi ce l’ha con Biagi e Santoro. Ecco, per esempio, Gasparri: «Trovo difficilmente compatibile un conduttore come Santoro con le cose sagge dette dal presidente della Repubblica. Io dico: più Ciampi e meno “conducator” nell’emittenza».
La lunga estate calda
L’ultimo Cda prima delle vacanze è fissato per il 31 luglio. Il 30 Saccà riconvoca Santoro. Ma quel che ha da dirgli, peraltro scontato, lo anticipa quel mattino il solito «Foglio»: Sciuscià chiude i battenti, la squadra si scioglie, i contratti a termine non verranno rinnovati, Santoro dovrà «studiare nuovi format». Strano: l’ultima volta Baldassarre aveva informato il Cda di aver incaricato Saccà di proporre una soluzione per Santoro. Erano balle anche quelle. La Rai sopprime addirittura le previste repliche dei documentari Sciuscià in seconda serata. Meglio far sparire al più presto dal video quello scomodo logo, nella speranza che la gente dimentichi.
Santoro gioca l’ultima carta. Convoca subito una conferenza stampa nella sede dell’Fnsi e annuncia: «Se nel Cda del 30 agosto non sarà ripristinato il nostro programma, ci batteremo con tutte le forze e in tutte le sedi per far valere i diritti del pubblico, privato del Fatto e di Sciuscià. Mobiliteremo le piazze, ma anche la magistratura per far valere il nostro contratto e i principi sanciti dai trattati di Maastricht e di Amsterdam sui diritti dell’uomo: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione”, senza “interferenze di pubbliche autorità”». Molte televisioni e giornali stranieri, compreso «Le Monde», si occupano del caso.
Il 1° agosto Santoro scrive a Saccà:
Gentile direttore, ieri mi hai comunicato che nel palinsesto autunnale non c’è posto né per me né per la mia squadra. Praticamente le stesse cose che aveva scritto «Il Foglio». Di conseguenza il gruppo di lavoro di Sciuscià, giornalisti e tecnici, una risorsa aziendale che gode il favore del pubblico e che è in grado di realizzare importanti risultati produttivi, viene condannato alla dispersione senza nessuna certezza per il futuro. Mi auguro che il consiglio di amministrazione, convocato per il 30 agosto, voglia correggere questa tua impostazione, esercitando appieno le sue prerogative editoriali. D’altro canto ribadisco che noi siamo e saremo pronti ad andare in onda a partire dalla prima settimana di ottobre. Se ciò non avverrà mi batterò con tutte le mie forze e in tutte le sedi per far valere, insieme ai miei diritti e a quelli dei miei collaboratori, i diritti del pubblico, al quale sono stati sottratti in rapida successione sia Il fatto di Enzo Biagi che Sciuscià, così come era stato indicato in Bulgaria dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi […].
Privandomi del mio lavoro, l’azienda si renderebbe responsabile della violazione, oltre che degli accordi contrattuali, di precise norme di legge che tutelano la mia professionalità e vietano ogni discriminazione di natura politica […]. Le azioni che, se sarà necessario, promuoverò in ogni sede, al di là delle forme, non saranno contro la Rai ma in difesa della Rai e del servizio pubblico.
Il 5 agosto Saccà ritarda le ferie per una pratica urgentissima: si ricorda finalmente di aprire in tutta fretta il procedimento disciplinare contro Santoro per la puntata del 24 maggio con Costanzo. E, già che c’è, gli contesta anche l’ultimo reportage di Sciuscià: quello del 16 luglio sull’emergenza idrica in Sicilia, che non è piaciuto al «governatore» Totò Cuffaro. Nel filmato sui blocchi stradali di protesta, si sente un tizio che urla «cornuto» a Cuffaro; inoltre il governatore contesta a Santoro di aver ignorato i provvedimenti legislativi adottati dalla sua giunta sul problema dell’acqua. Santoro ribatte che l’insulto era uno dei tanti di quei momenti di tensione, e ovviamente non aveva un significato letterale; quanto alle fantomatiche leggi regionali ignorate, nessun giornale italiano vi aveva mai fatto cenno nei servizi dedicati per giorni e giorni alla vicenda. Ancora una volta la contestazione non ha alcun fondamento. Ma l’autodifesa di Santoro verrà bellamente ignorata. La sanzione è già decisa prima ancora che l’imputato possa difendersi.
Questa volta i capi d’imputazione che Saccà, tarantolato in piena estate, ha deciso di scagliare contro Santoro vengono pubblicati dalla «Padania», che ha avuto in esclusiva il testo della «lettera di richiamo». Eccoli: «uso personale e privato del mezzo televisivo» e «violazione dei doveri di diligenza e fedeltà» nonché dei «criteri di pluralismo, imparzialità, correttezza e obiettività». Accuse generiche, impossibile difendersi. Ma anche accuse che sembrano piovere da Marte, visto che la puntata incriminata era la più pluralista che si potesse immaginare (Mentana, Veneziani, Belpietro e Adornato, che alla fine si era congratulato con Santoro per l’irreprensibile conduzione). Quanto al reportage sull’acqua in Sicilia, era stato preventivamente visionato e approvato dal direttore Marano: ma inspiegabilmente, o forse molto spiegabilmente, contro Marano non parte alcun’azione disciplinare.
Il 30 agosto Donzelli e Zanda chiedono la ripresa di Sciuscià. Ma Baldassarre, Albertoni e Staderini respingono la richiesta, giudicandola «contraria alla legge e al contratto collettivo», in quanto limiterebbe l’autonomia dei direttori di rete, che ora sarebbero tutti contrari a utilizzare Santoro. è l’ennesima balla, visto che poco dopo arriva una lettera di Paolo Ruffini, direttore di Rai3, pronto a ospitare sia Biagi sia Santoro. L’ipotesi, subito accolta da Santoro, è quella di un programma mensile (il settimanale d’informazione, Ballarò, è già stato appaltato al giovane ex corrispondente del Tg3 dagli Usa, Giovanni Floris, sponsorizzato dalla Margherita), con i documentari di Sciuscià a cadenza settimanale. «Può essere una soluzione», commenta Baldassarre. Il Cda incarica Saccà di sondare Ruffini per trovare una collocazione a Santoro. Ma Saccà replica che al momento Santoro non può andare in onda per il vulnus che avrebbe inferto all’azienda nella puntata del 24 maggio (poco importa se nessuno l’ha mai accertato). Poi, visto che quel pretesto non sta in piedi, ne escogita uno nuovo di zecca: Sciuscià (come Il fatto) costa troppo e Rai3 non può permetterselo.
Tutti in piazza
L’Italia che tiene all’informazione libera si mobilita. Articolo 21 lancia una petizione per il ritorno del Fatto e di Sciuscià. Il 14 settembre, alla grande manifestazione dei girotondi in piazza San Giovanni, Santoro e la sua squadra partecipano al completo con un grande striscione («E non finisce qui. Sciuscià»), raccolgono 100 mila firme e realizzano in tempo reale un reportage di 50 minuti che viene trasmesso quella stessa sera in tutta Italia da un pool di emittenti private, bucando il muro di omertà eretto da Rai e Mediaset. Alcuni imprenditori hanno contribuito alle spese e alle attrezzature, ma a patto che non comparisse il loro nome: una sponsorizzazione all’incontrario, per paura di rappresaglie. Il 16 settembre la Rai apre un procedimento disciplinare contro Ruotolo, reo di aver rilasciato un’intervista a «Liberazione» per dire che Sciuscià è vittima di un «attacco politico», causando così «una grave lesione dell’immagine e degli interessi aziendali». Ecco: la colpa dell’abuso non è di chi lo commette, ma di chi lo denuncia.
Il 18 settembre Costanzo invita Santoro al suo show, che riapre i battenti il 23. Promette che canterà Contessa. Ma Santoro declina e, in una lettera, spiega perché:
Caro Maurizio, innanzitutto voglio ringraziarti per aver firmato la petizione che chiede il ritorno in onda del Fatto e di Sciuscià e per tutte le posizioni che hai assunto pubblicamente a nostro favore. Ho a lungo riflettuto sul tuo invito […]. Sarebbe stata una buona occasione per spiegare a tante persone cosa sta accadendo nella televisione italiana. Apprezzo il tuo invito, ma non posso accoglierlo. Mi sentirei come un galeotto che gode di mezz’ora d’aria nella prigione messa su dal suo carceriere. Chi ci ha tolto il lavoro non ci ha tolto la dignità. Continueremo a batterci finché le nostre telecamere saranno riaccese. Sarebbe veramente paradossale che il presidente del Consiglio, dopo aver chiesto e ottenuto il nostro oscuramento, vestisse i panni dell’editore liberale, concedendoci mezz’ora d’aria sulle reti di sua proprietà. Preferisco il silenzio o il rumore della strada. Rifiuterò anche i numerosi inviti che mi vengono rivolti a partecipare a programmi di intrattenimento molto prestigiosi. Non avertene a male. Contessa, se puoi, cantala da solo. Del resto anch’io ho cantato da solo Bella Ciao e non ho avuto paura di stonare. Tu farai più fatica con le parole che con la musica. Comunque starò in prima fila a guardarti. In bocca al lupo.
Costanzo mantiene la promessa solo a metà: recita (senza cantarli, come invece aveva annunciato) alcuni versi di Contessa, l’inno del Sessantotto firmato dal suo regista Paolo Pietrangeli, debitamente selezionati. I meno rivoluzionari: «Ma se questo è il prezzo l’abbiamo pagato / nessuno più al mondo deve essere sfruttato. / Se il vento fischiava, ora fischia più forte / le idee di rivolta non sono mai morte. / Se c’è chi lo afferma, non state a sentire / è uno che vuole soltanto tradire». Tutt’altro effetto avrebbe sortito declamando il ritornello: «Compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce e portate il martello / scendete giù in piazza picchiate con quello / scendete giù in piazza e affondate il sistema…». Ma Costanzo se ne guarda bene. Poi spiega al pubblico del Parioli: «Santoro è un professionista che dovrebbe continuare a fare questo lavoro. Un datore di lavoro impone le regole, uno può accettarle o meno, ma lui merita di lavorare. è inutile incatenarsi a viale Mazzini, ma incatenarsi a delle idee sì. Spero che in Italia si affronti il tema della libertà d’espressione».
Il 1° ottobre lo affronta, a modo suo, Agostino Saccà con una mossa davvero elegante: rende noto dinanzi al Cda il compenso lordo di Santoro. Dal 23 settembre, ha sul tavolo una lettera in cui Ruffini conferma di esser pronto a ospitare «Santoro e la sua squadra» per «un ciclo di prime serate su Rai3 nel palinsesto del 2003; o (nel caso Biagi non fosse più disponibile a condurre Il fatto sulla terza rete) una striscia di circa mezz’ora fra le 20 e le 21 che possa efficacemente controprogrammare Mediaset ed in particolare Striscia la notizia». Ma non se ne farà nulla.
Sciuscià viene sostituito con Excalibur. Il programma, inizialmente, pareva destinato ad Anna Scalfati, moglie di un commissario dell’Authority. Ma alla fine si è optato per Socci, ciellino già in forze al «Sabato», poi passato al «Giornale» con Feltri e Belpietro. Berlusconi stravede per lui, anche se Mediaset si è sempre guardata dall’ingaggiarlo. Vedendolo poi all’opera, si comprende il perché: il programma è semplicemente imbarazzante, e non si avvicina mai al 10% di share. Partito all’8, meno della metà di Sciuscià, scenderà fino al 3 virgola qualcosa: impresa davvero improba, peggio che fare zero al Totocalcio. Finché una mano pietosa provvederà a chiuderlo e a cancellare dal video lo sventurato conduttore, paracadutato alla Scuola di giornalismo Rai di Perugia. Non come alunno, ma come direttore.
Carte bollate
Santoro fa causa alla Rai. Primo passo, il tentativo obbligatorio di conciliazione per annullare la delibera del Cda che il 30 agosto ha chiuso Sciuscià. La Rai, per tutta risposta, il 14 ottobre gli notifica la sanzione disciplinare per la puntata con Costanzo (sempre utile in ogni momento) e per il documentario sulla Sicilia: sospensione di quattro giorni dal lavoro e dallo stipendio.
Il 16 ottobre Ruffini comunica che il Cda l’ha incaricato di sistemare Santoro su Rai3 con un programma settimanale dopo la Pasqua del 2003, senza aumenti di budget per la rete. Ma due giorni dopo arriva un altro stop da Saccà, sempre dalle colonne del «Corriere»:
I direttori sono autonomi, ma c’è una direzione generale che studia tutte le compatibilità. L’Autorità delle Telecomunicazioni ha comminato una multa a Santoro per violazione delle regole durante la campagna elettorale e il giudice, dopo il ricorso Rai, ha confermato la sanzione. Santoro ha ricevuto sanzioni dalla Rai. Ha sbeffeggiato pubblicamente presidente, direttore generale e direttore di Rai2. Ha denunciato alla magistratura i primi due e i consiglieri Albertoni e Staderini. Credo ci siano elementi sufficienti a dir poco per una riflessione […]. Ruffini può stabilire tutti i contatti che vuole. Ma ciò che ha detto [Santoro, N.d.A.] pesa come un macigno. E mi chiedo se la Rai può far finta di niente di fronte a chi si sente legibus solutus, cioè libero dai legami della legge.
Un’altra derrata di bugie (a cominciare da quel riferimento a un presunto «giudice» che avrebbe irrogato una sanzione definitiva, mentre si tratta della solita Authority). Santoro le rintuzza il 22 ottobre, sempre sul «Corriere»:
Il ricorso proposto davanti al Tar dalla Rai contro la sanzione pecuniaria che le è stata inflitta non è stato ancora deciso dal giudice amministrativo […]. La Rai, nelle sue controdeduzioni difensive, ha sostenuto che «non vi è stata alcuna condotta scorretta da parte del conduttore della trasmissione» e che l’azienda ha chiesto al Tar del Lazio di annullare la sanzione perché viziata da «eccesso di potere e violazione di legge». Poiché la sanzione non è stata applicata a me, ma alla Rai, non ho potuto difendermi personalmente, ma sono certamente interessato – perché è in gioco la libertà di informazione – all’esito positivo del giudizio, mentre il direttore generale dà l’impressione di volere che l’azienda perda la causa.
Ormai siamo alle carte bollate. I legali di Santoro intimano al direttore generale di dire chiaramente, una volta per tutte, se intenda onorare il contratto che impone alla Rai di utilizzare Santoro per programmi settimanali di approfondimento in prima serata, oppure calpestarlo. Saccà fa rispondere dall’Ufficio legale che la richiesta è «irricevibile» e che è Santoro a «sottrarsi agli obblighi contrattualmente assunti, mediante il rifiuto di rendere le prestazioni richieste e dovute (per esempio in relazione al programma Donne)».
è il mondo capovolto: dopo aver cancellato Santoro dai palinsesti, la Rai lo accusa di non lavorare. I legali del giornalista replicano, attoniti, che il programma Donne è stato già completato nelle sue cinque puntate (andate in onda su Rai2 in ottobre!) con la collaborazione di Santoro; e che lo stesso Saccà, il 1° ottobre in Vigilanza, aveva risposto a chi contestava il suo mancato impiego che in realtà Santoro stava lavorando a Donne.
Il 1° novembre, intervistato da «Repubblica», Baldassarre getta definitivamente la maschera del poliziotto buono e si allinea a quello cattivo: «La posizione di Santoro è ben più difficile di quella di Biagi». Di quali colpe si sarebbe macchiato? «Mi hanno colpito le sue continue interviste che ci dipingono come dei censori. E poi ha fatto causa all’azienda sostenendo di non essere impiegato come meriterebbe». Meccanismo perfetto: il premier ordina di epurare Santoro, i vertici Rai obbediscono, Santoro denuncia l’epurazione e i vertici Rai allargano le braccia: abbiamo dovuto epurarlo perché ci accusa di averlo epurato.
A fine mese Saccà ordina di portar via i computer dalla redazione di Sciuscià. Smantellato anche l’archivio, con dieci anni di lavoro. Nessuno dei contratti a termine viene rinnovato, mentre Maria Cuffaro e Alessandro Gaeta vengono reinseriti rispettivamente al Tg3 e al Tg1. Spariscono anche l’assistente di Santoro e persino l’automobile con autista che gli spetta per contratto come direttore.
Il 4 novembre Petruccioli, con involontaria ironia, scrive a Baldassarre per sapere se esistano «pregiudiziali ostative» contro Santoro. Sublime risposta del presidente: «La posizione del dottor Santoro è all’attenzione del direttore generale, al quale spetta la trattativa relativa alla stipulazione dei contratti. Sarà egli, pertanto, che Le risponderà al riguardo». Egli, cioè Saccà, si guarderà bene dal rispondere al riguardo. Risponde il direttore delle Risorse umane Gianfranco Comanducci, il 5 novembre, confermando che Santoro è out.
Il 7 novembre il consigliere Donzelli scrive ai presidenti di Camera e Senato: «Disarmante è la irresponsabilità con cui si continua a rinviare la decisione circa il ripristino delle trasmissioni condotte da Biagi e Santoro». Casini e Pera fanno orecchi da mercante.
A metà novembre Santoro, con l’avvocato Domenico D’Amati, presenta un ricorso urgente (articolo 700 del Codice di procedura civile) al tribunale del Lavoro di Roma: sfumata ogni possibilità di conciliazione, chiede l’immediata «condanna della Rai all’adempimento dell’obbligo di farlo lavorare con le mansioni concordate all’atto dell’assunzione e concretamente in effetti da lui svolte sino al termine della stagione televisiva 2001-2002», oltre ovviamente al risarcimento del danno (da stabilire in un altro giudizio) per il suo «demansionamento professionale» che gli ha causato gravi «lesioni della dignità, dell’identità personale e della professionalità di lavoratore». La denuncia è rivolta a Berlusconi, mandante dell’epurazione, e agli esecutori materiali: Saccà, Baldassarre, Albertoni e Staderini. La Rai, nella replica, sostiene che è Santoro a non voler lavorare: prova ne sia il suo rifiuto di realizzare un «docudrama» (una specie di fiction storica in cinque puntate, più una o due di talk show) sul bandito Salvatore Giuliano. Replica anche Palazzo Chigi, con una strepitosa memoria difensiva: «La Rai è giuridicamente autonoma dalla Presidenza del Consiglio» e dunque, anche se cacciando Santoro «l’azienda avesse ritenuto di conformare i propri comportamenti alle opinioni politiche altrui [cioè di Berlusconi, N.d.A.], era solo nei confronti dell’azienda stessa che il Santoro, ritenutosi leso, avrebbe potuto attivarsi in sede giudiziale». Il premier ordina, la Rai esegue, Santoro protesta, il premier dice di prendersela con la Rai perché lui non c’entra.
Michele deve tornare
Il 9 dicembre il giudice Massimo Pagliarini emette un’ordinanza che intima urgentemente alla Rai, ex articolo 700, di rimettere Santoro al suo posto, come previsto dal contratto, affidandogli un programma di approfondimento dell’informazione in prima serata. Quanto alle «mansioni propostegli dalla Rai e consistenti nella realizzazione del docudrama su Salvatore Giuliano», queste «non appaiono per nulla equivalenti, sotto il profilo quantitativo e qualitativo […], a quelle svolte in precedenza». Dunque «può ritenersi pienamente consumata da parte della Rai la violazione dell’art. 2103 C.c. [Codice civile, N.d.A.]» e «accertato il demansionamento del Santoro». Ed è urgente riparare, visto che «la professionalità del Santoro, il suo diritto a lavorare come realizzatore e conduttore di programmi televisivi di approfondimento dell’informazione su temi di stretta attualità seguiti da un vasto pubblico, il suo diritto a non perdere il patrimonio professionale acquisito anche attraverso le predette forme di visibilità televisiva, corrono il concreto rischio di venire irrimediabilmente compromessi».
Santoro dedica «questa bella giornata a Biagi, a Freccero e alla mia squadra che era stata cancellata. Ora mi aspetto di poter riprendere il mio lavoro. Il nome? Quello che vogliono, anche Pincopallo. Ma quello di Sciuscià resta un format nuovo, vitale, un patrimonio capace di attirare il 18% di ascolto e risorse pubblicitarie, un appuntamento leader della rete. Io chiedo ai liberali: chi decide, in un’ottica di mercato, se un format è superato? Il governo, il Cda, la Vigilanza, l’Authority? Io dico che la risposta è una sola: il pubblico». Ma la Rai fa spallucce e, annunciando ricorso in appello contro la sentenza, comunica: «Il giudice ha rimesso all’azienda l’individuazione delle trasmissioni da affidare a Santoro con l’unico limite dell’obbligatorietà del carattere informativo. Quindi non ha imposto che debba rifare Sciuscià […]. La Rai aveva già proposto a Santoro un nuovo programma di approfondimento giornalistico rispettoso del pluralismo, ma Santoro aveva negato questa possibilità rivendicando il suo diritto alla faziosità». Le solite plateali bugie.
L’appello viene esaminato dalla II sezione Lavoro del tribunale di Roma in formazione collegiale: presidente Domenico Cortesani, giudici a latere Daniela Blasutto (relatore) e Margherita Leone. Il 13 febbraio 2003 arriva la sentenza: piena conferma di quella di primo grado, per la «infondatezza dei motivi addotti» dalla Rai. Santoro, come da contratto, deve realizzare programmi informativi in prima serata e ha «comunque diritto a vedere reintegrata la propria posizione lavorativa lesa dal comportamento illegittimo» della Rai. Ma viale Mazzini s’infischia anche della seconda sentenza. Santoro chiede al giudice Pagliarini di costringerla a eseguirla con le relative «misure di attuazione» e di trasmettere gli atti alla Procura perché proceda per il reato di inosservanza del provvedimento del giudice civile. La Rai, alle corde, chiede una serie di rinvii per dar tempo al Cda di riunirsi.
Ma poi prosegue la manfrina. I suoi legali annunciano al tribunale che il direttore di Rai3 è pronto a ospitare Santoro e illustrano due diverse proposte che potrebbero concretizzarsi «dalla fine di ottobre»: «un programma nel pomeriggio del sabato, dalle 16 alle 18, articolato in 8 puntate di 90 minuti ciascuna»; e «una trasmissione in 16 puntate da 20 minuti ciascuna nella terza serata di sabato o domenica», cioè intorno all’una di notte. Due proposte indecenti.
Santoro si rimette al giudizio del tribunale: se riterrà che siano congrue, lui le accetterà. Ma ormai il giudice Pagliarini si sente preso in giro. E, in una nuova ordinanza del 3 giugno 2003, scrive:
Per collocazione oraria, durata e mancanza di serialità e continuità, la proposta formulata dall’azienda non esegue e non attua il provvedimento del giudice […]. Andare in onda il sabato pomeriggio oppure il sabato e la domenica notte dopo le ore 24, per 20’ e in entrambe le ipotesi per una durata complessiva di non più di due mesi, si traduce in un’evidente variazione peggiorativa delle mansioni affidate a Santoro e in una deminutio del suo patrimonio professionale […]. La Rai è destinataria da ormai più di cinque mesi di un ordine giudiziale non ancora eseguito – determinato da una precedente violazione da essa posta in essere – e rispetto al quale tutte quelle situazioni create dalla stessa obbligata [la Rai] non hanno la possibilità di giustificare il protrarsi dell’inottemperanza.
Carta straccia, in tribunale, anche la censura dell’Authority sulle puntate dell’ultima campagna elettorale, altro alibi accampato da viale Mazzini: «La delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – scrive il giudice – nel presente procedimento non può rivestire nessun rilievo», essendo un «richiamo diretto nei confronti dell’azienda convenuta», non di Santoro. Tra l’altro, nel frattempo, l’Authority ha censurato anche Mediaset per il Tg4 e Rai2 per Excalibur. Ma Mediaset e Rai se ne sono bellamente infischiate, lasciando Fede e Socci ai loro posti. Quando la sanzione colpisce gli amici di Berlusconi, è una medaglia al valore. Quando colpisce i nemici, è una condanna al confino.
Pagliarini giudica perciò «legittimo il rifiuto di Santoro» e ordina alla Rai di
affidare a Santoro la realizzazione e la conduzione di un programma di approfondimento giornalistico sull’informazione di attualità; collocato in una fascia oraria che abbia un ascolto quantitativamente e qualitativamente non inferiore a quello proprio della fascia oraria in cui era collocato il programma Sciuscià ovvero in cui sono collocati programmi di genere analogo quali Porta a Porta, Excalibur, Ballarò, e cioè in prima o seconda serata; realizzato mediante puntate essenzialmente o tendenzialmente monotematiche; che abbia una durata complessiva equivalente a quella – tra i 90’ e i 150’ per puntata settimanale per non meno di otto mesi – dei programmi realizzati in precedenza dal ricorrente; con dotazione di risorse – umane, materiali e tecniche – idonee ad assicurare la buona riuscita del programma, in misura equivalente a quella praticata per i programmi precedenti.
La neopresidente della Rai Lucia Annunziata – unico consigliere dell’Ulivo in un Cda monopolizzato dal centrodestra – si dice molto «soddisfatta» per la terza sentenza che dà torto all’azienda che presiede. Ma non farà assolutamente nulla perché il servizio pubblico vi dia esecuzione. Gli altri quattro consiglieri, quelli della Cdl, quelli che comandano, si riuniscono separatamente dalla presidente, schiumanti di rabbia: «Non spetta al giudice – tuonano – fare i palinsesti». Infatti spetta al presidente del Consiglio, dalla Bulgaria. «Se decide il giudice, noi che ci stiamo a fare?» domanda il professor Rumi. Ma il meglio lo dà Veneziani, furibondo contro l’ordinanza che «limita la libertà d’impresa sancita dalla Costituzione». è lo stesso Veneziani che aveva promesso di «scendere in piazza a manifestare» per Biagi e Santoro. Ora, accomodato sul cadreghino del Cda, si batte come un leone contro il loro ritorno in Rai.
Anche la stampa filoberlusconiana, «il Riformista» in testa, attacca a testa bassa il giudice che «impone Santoro alla Rai» e «vuole decidere i palinsesti». Ferrara sul «Foglio» parla addirittura di «abuso di potere» da parte del giudice e accusa Santoro (da qual pulpito!) di essere un «giornalista estremamente squilibrato e fazioso», sempre in cerca di «martirio mediatico», ricordando immancabilmente la «devastante sanzione dell’Authority». Niente male, per uno che non riconosce nemmeno le sentenze dei tribunali che condannano per corruzione i suoi amici e padrini. Più onestamente, Pierluigi Battista ricorda sulla «Stampa» che la sentenza di Pagliarini «non è l’iniziativa estemporanea di un pretore presenzialista e arrogante, ma la replica al comportamento elusivo della Rai», che ha obbedito all’«invasione di campo del presidente del Consiglio che, da Sofia, decise di chiedere la messa al bando di Santoro dalla tv di Stato». «Stupisce – conclude Battista – che consiglieri Rai certamente liberali come Rumi, Petroni e Alberoni e uomini liberi […] come Veneziani non capiscano che, stavolta, non si tratta di giudici invasori ma dell’esercizio di un diritto di libertà». Una voce nel deserto, subito coperta dagli strepiti dei «liberali» alla Piero Ostellino. Quest’ultimo, sul «Corriere», anziché prendersela con la Rai per i suoi soprusi illiberali, attacca il giudice e soprattutto Santoro, «agitatore politico», «uomo che non solo non sembra né psicologicamente in grado, né politicamente intenzionato, a rispettare […] la par condicio». Secondo il «liberale» Ostellino, «il problema consiste nel farlo lavorare, ma al tempo stesso nell’evitare, per quanto possibile, altre lamentele da parte del presidente del Consiglio e della Casa delle Libertà». Poi il «liberale» Ostellino ricorda che «Santoro ha una retribuzione di parecchie centinaia di milioni di lire», sebbene «nella situazione di duopolio (Rai e Mediaset) non abbia, di fatto, mercato». La sentenza Pagliarini – conclude Ostellino – «minaccia di creare un problema di natura etica, riconoscendo a Santoro una condizione di privilegio economico». Intanto, stranamente, il privilegiato – «forte del martirio professionale inflittogli dal capo del governo e dei clamori politici sollevati» – continua a non lavorare. A Santoro arriva pure la solidarietà pelosa di Bruno Vespa che, magnanimo, concede: «Tutti devono avere la possibilità di andare in onda, ma devono rispettare le regole. Non vorrei essere l’unico a farlo». Ad esempio, ospitando a Porta a Porta Scattone e Ferraro, gli assassini di Marta Russo, profumatamente pagati con 260 milioni di lire di denaro pubblico.
La Rai se ne infischia
All’ennesimo reclamo della Rai, il tribunale di Roma torna a riunirsi in composizione collegiale: stesso presidente (Cortesani), stesso giudice a latere (Blasutto); cambia soltanto l’altro giudice, che è anche il relatore: Alessandro Nunziata. Ma stavolta, il 17 luglio 2003, i tre si rimangiano in parte quanto i primi due avevano stabilito cinque mesi prima e, pur dando ragione a Santoro sul diritto a tornare in video con un «programma di approfondimento giornalistico sull’informazione di attualità», lasciano libera la Rai di collocarlo in orari diversi dalla prima serata. Motivo: l’orario e la durata non influiscono sull’importanza dell’incarico e quindi sulla qualità delle mansioni. L’esatto contrario di quanto lo stesso tribunale collegiale aveva sostenuto, sentenze della Cassazione alla mano, nell’ordinanza di febbraio*.
Per non sbagliare, comunque, la Rai s’infischia anche del nuovo ordine del tribunale e continua a menare il can per l’aia. Ma per dimostrare ai giudici la sua ferrea volontà di reintegrare Santoro, lo invita a prendere contatto con il nuovo dirigente dei palinsesti Alessio Gorla, uomo Fininvest già responsabile della campagna elettorale di Berlusconi nel 1994. Santoro lo incontra. «Noi vorremmo farvi lavorare», gli dice Gorla. Inizia così l’ennesima interminabile trattativa segreta. La proposta è indecente, una vera e propria discesa agli inferi. Ma Santoro decide di «andare a vedere», per non regalare altri alibi alla Rai. Si tratta di questo: Santoro dovrà uscire dall’azienda con una risoluzione anticipata del suo contratto, per essere riassunto con un accordo biennale che prevede la realizzazione di un programma in 5-7 puntate che spazierà su temi sociali e storici (per esempio, un’inchiesta sui giovani). Nulla che somigli al suo lavoro di sempre, niente diretta, tutto registrato per evitare sorprese. Santoro, pur di tornare in onda, accetta le condizioni-capestro. A una sola condizione: che sia garantita la sua autonomia. Ma, quando l’accordo sembra fatto, in extremis viene aggiunta una clausola davvero impossibile da accettare: tutte le scelte, le spese, le trasferte, persino le persone da intervistare andranno sottoposte alla supervisione di un apposito ufficio. In pratica è la rinuncia a qualunque barlume di autonomia dell’autore, ma anche una garanzia di sicuro insuccesso per il programma. Così anche l’ultima trattativa si arena.
Trappola in piazza Farnese
Il 30 aprile 2003 Rifondazione comunista organizza un pubblico dibattito in piazza Farnese sul prossimo referendum per l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. E chiede a Santoro di condurlo, in stile Sciuscià, con tre giornalisti di vari orientamenti: Antonio Polito del «Riformista» e Pierluigi Battista della «Stampa» schierati per il No, Piero Sansonetti dell’«Unità» per il Sì. Santoro ha già realizzato uno Sciuscià in piazza, a Castel Sant’Angelo, qualche mese prima, sulla guerra in Iraq: Lucia Annunziata, non ancora presidente della Rai, era in prima fila. Ora però, a scanso di equivoci, Santoro si cautela informando il nuovo direttore generale Flavio Cattaneo della proposta di Bertinotti. Nessuna risposta. Nelle vacanze pasquali, riceve una telefonata di Lorenzo Ottolenghi, assistente dell’Annunziata: «Cattaneo rifiuta di autorizzarti, ma noi vogliamo che tu lo faccia lo stesso». Santoro teme di pregiudicare la causa in corso con la Rai: «Forse è meglio lasciar perdere». A quel punto Bertinotti chiama l’Annunziata e la trattativa si riapre: Santoro dovrà contattare il nuovo capo delle relazioni esterne Rai, Guido Paglia. Santoro informa Paglia di tutto, compreso il fatto che la manifestazione sarà trasmessa in tutta Italia da un circuito di tv locali collegate a Telelombardia. Paglia lo incoraggia ad andare avanti. Santoro non si fida. Ma Paglia assicura che non c’è problema: «Vuoi che chiami io Sandro Parenzo a Telelombardia, per dirgli di fare le riprese?». Così la serata si fa, davanti a migliaia di persone. L’indomani, 10 maggio, doccia fredda: Cattaneo annuncia l’ennesimo procedimento disciplinare contro Santoro: sospensione di cinque giorni dallo stipendio, per aver «violato una disposizione aziendale che proibisce ai dipendenti Rai di partecipare a manifestazioni in cui non sia garantito il pluralismo». Una circolare demenziale, che pretende di sindacare la libertà d’espressione e persino il tempo libero delle persone. E che oltretutto non può applicarsi al caso di specie, visto che in piazza Farnese il pluralismo era pienamente soddisfatto dalla presenza di sostenitori del Sì e del No. Ma, anziché difendere Santoro e spiegare che la Rai era d’accordo, l’Annunziata lo scarica: «Michele – dice – mi ha presa in giro, non facendomi capire di che cosa si trattava esattamente». Trappola perfetta.
Veneziani coglie la palla al balzo per dire che lui sarebbe anche favorevole a un ritorno di Santoro in video, ma è proprio Santoro «con i suoi comportamenti e le sue dichiarazioni» a renderlo impossibile: quel che ha fatto in piazza Farnese è «gravissimo», perché avrebbe «violato il codice deontologico». Santoro gli risponde il 15 maggio, per lettera:
Caro Veneziani, mi dispiace constatare che fai finta di ignorare che la conduzione da parte mia del dibattito sul tipo di Sciuscià a piazza Farnese era stata autorizzata dalla Rai che era altresì stata informata della presenza delle emittenti private. Da più di un anno la Rai ci impedisce di fare il nostro lavoro. Senza alcuna considerazione né per gli ascolti, né per gli introiti pubblicitari, né per le richieste e le proteste del pubblico e degli abbonati. La magistratura ha ripetutamente accertato l’esistenza di una discriminazione ai nostri danni ed ha ordinato alla Rai di reintegrarci. Da sei mesi la Rai si rifiuta di eseguire l’ordine del giudice. In tribunale ho dichiarato che per la prima volta proposte televisive [quelle di lavorare il sabato pomeriggio o la notte della domenica, N.d.A.] non sono state concordate con l’autore. Non avendo alcun senso dal punto di vista editoriale, esse sembravano concepite più ad Arcore che a viale Mazzini. Tu le trovi televisivamente interessanti e motivate? Il codice deontologico al quale fai riferimento non esiste. Nessun codice potrebbe impedire di partecipare a un dibattito e di condurlo, né tantomeno potrebbe impedire a chi vuole riprendere una manifestazione pubblica di farlo. Ciò si porrebbe in contrasto con quanto prevede la nostra Costituzione riguardo alla libertà di espressione.
A questo punto si fa viva la Rai:
Non è vero che Santoro era stato autorizzato a condurre la manifestazione in piazza Farnese, ma soltanto a parteciparvi. La Rai ignorava che la manifestazione sarebbe stata ripresa da un network concorrente. E non risponde al vero che la Rai gli impedisce di lavorare: semmai è stato Santoro a rifiutare sistematicamente le ipotesi di programma che via via gli sono state proposte […], violando ancora una volta il dovere di fedeltà nei confronti della Rai con asserzioni denigratorie dell’indipendenza e dell’autonomia dell’azienda.
Cattaneo completa l’opera giurando, davanti alla Vigilanza, che «non c’è nessuna volontà persecutoria nei confronti di Santoro. A me personalmente non ha fatto proprio nulla». Già, l’ha fatto al presidente del Consiglio.
Su «Liberazione», la capufficio stampa di Rifondazione, Ritanna Armeni, ricostruisce il caso di piazza Farnese minuto per minuto, sbugiardando in toto la Rai: «Ai vertici del servizio pubblico era stato anche comunicato prima dell’avvenimento che alcune tv private avevano chiesto di riprendere la manifestazione: il 24 aprile l’autorizzazione fu negata, ma poi la presidente della Rai Annunziata assicurò a Santoro e allo stesso segretario Bertinotti che c’era stato un errore e che l’iniziativa si poteva svolgere regolarmente. Quando abbiamo saputo che alcune emittenti private chiedevano di riprendere la manifestazione, ne parlammo con i vertici della Rai, che ci risposero che non c’erano problemi». Il caso è talmente scandaloso che, a difendere Santoro, interviene persino «il Riformista».
Il 16 maggio 2003 rispunta l’Authority: censura per mancanza di equilibrio un’intervista in ginocchio di Antonio Socci a Berlusconi in una puntata di Excalibur dedicata al processo Sme, accogliendo un ricorso di Falomi (Ds) e Gentiloni (Margherita). E invita la Rai a riparare. Ma nel contempo, con un capolavoro di cerchiobottismo, sanziona Rai e Mediaset riassumendo un vecchio procedimento: quello contro il Tg4 di Fede e le ultime puntate di Sciuscià trasmesse più di un anno prima (quelle in cui esponenti di destra e di sinistra parlarono liberamente di censura, compresa quella con Costanzo). «Mi auguro – commenta Santoro – che contro questo provvedimento tardivo e infondato la Rai voglia presentare ricorso, visto che a suo tempo si era difesa sia contestando il potere dell’Autorità di compiere questo tipo di intervento, sia dimostrando che nei programmi da me condotti le regole del pluralismo e della corretta informazione sono state rispettate». La Rai non ricorre, anzi usa anche quella pronuncia contro Santoro. Gasparri la spalleggia: assolve Socci («una sola puntata accusata di “disequilibrio” è un’infrazione lieve») e Fede («non lavora per il servizio pubblico, dunque la sua posizione è notevolmente più leggera»), ma condanna il defunto Sciuscià: «Su Santoro l’Authority ci dà ragione, ha sistematicamente calpestato il pluralismo, è un fazioso recidivo. Ora voglio vederli Nanni Moretti e i suoi scansafatiche fare girotondi contro l’occupazione della Rai. Ora non ci sono più dubbi: la Rai ha fatto bene a togliere Santoro dal video». Socci rimane in viale Mazzini, vicedirettore di Rai2 e conduttore di Excalibur. Santoro rimane fuori dal video.