Il salone della parrocchia, venerdì sera, un quartiere di Torino a ridosso del centro. In fondo alla sala, dei tavoli con un po’ di roba da mangiare e da bere, dopo. Dal lato opposto della sala il palco, incorniciato da tendoni neri. Subito sotto il palco un tavolo e una sedia. Tra il palco e i tavoli col cibo, sedie di plastica, una cinquantina.
Un uomo parla al microfono: è ben vestito, giacca e cravatta, corporatura robusta, capelli scuri ben pettinati. Parla al microfono a trenta persone, sedute sulle sedie di plastica. Forse qualcuna di più, almeno quaranta. Parla di sé e capisci che è una storia che ha già raccontato altre volte, che sta percorrendo, a parole, un cammino a tappe già studiato e pensato da tempo, già sperimentato. E pensi che ora ti spiegherà come e perché ha denunciato la ‘ndrangheta, che è stato difficile, che quando ha deciso di farlo conosceva i rischi che avrebbe corso, ma che il suo senso del dovere, i valori hanno prevalso, eccetera. Così elabori già la tua difesa: pensi che sia una vita eroica la sua, e che ad ascoltarla trasuderà un bel po’ di retorica, quella retorica inevitabile e sacrosanta che il personaggio richiede. E’ una difesa, la tua, l’elaborazione di una distanza, di un diaframma che ti separi dal racconto di una vita esemplare, emblematica, da ammirare, ma un po’ da lontano, quasi fosse un’agiografia.
Invece no. A un certo punto nel racconto c’è qualcosa che non torna, che non quadra. L’uomo sta dicendo che ha denunciato (la ‘ndrangheta che gli chiedeva il 3% degli appalti, i politici che gli chiedevano il doppio, i magistrati) solo perché gli sembrava normale, perché lui voleva solo fare l’imprenditore edile, e farlo bene, in grande, come suo padre e meglio di suo padre. Non chiama in causa i valori, il senso del dovere, la disponibilità al sacrificio. No: la normalità.
Così prosegue a raccontare e parla di quando si è rivolto a carabinieri, polizia e magistratura, sedici anni fa, e la risposta era: “Lascia perdere, non andare a cercarti rogne”. Quando finalmente ha trovato qualcuno disposto a raccogliere la sua denuncia, a fare sul serio, è iniziata la punizione.
Altra cesura, altra considerazione che ti spiazza.Quest’uomo non sta dicendo che la protezione delle forze dell’ordine, dello Stato, gli ha reso la vita molto difficile, ma che era un rischio che sapeva di correre, il prezzo che in qualche modo immaginava di dover pagare. No. Quest’uomo racconta una storia diversa e spiega, a noi trenta persone o poco più, sedute sulle seggiole di plastica, che il programma di protezione per lui è stato ed è una punizione. La punizione. Quest’uomo racconta la storia di una non vita cominciata sedici anni fa, di non case in non luoghi lontani da tutto, nel nord Italia, di raccomandate non spedite per non essere rintracciabili, di figli che non sono abituati a vivere in spazi ampi, all’aperto, di un saluto non dato alla madre per evitare di esporla a qualche rischio, una madre non più vista per anni, dopo. La storia di un esilio in nome della sicurezza personale di un uomo e della sua famiglia, a cui però non viene data una nuova identità, un cognome diverso, ovvero la prima protezione che a uno verrebbe in mente di dare. Va’ a sapere.
E’ la storia di Pino Masciari, di sua moglie Marisa e dei loro due figli. Ha denunciato. Ha fatto finire molte persone in carcere. Da allora ha vissuto in esilio, imprigionato lui, prima e forse più di quelli che ha mandato in galera, privato di diritti elementari, sempre in bilico, molto spesso solo, lontano da tutto, isolato. Ti diamo la scorta. Ti togliamo la scorta. Stai via solo tre mesi. No, sei mesi. No, sedici anni. No: sempre.
Da poco più di tre anni ha deciso di raccontare la sua storia alle persone che incontra, di uscire allo scoperto. Grazie a molte singole persone e ad alcune associazioni che ora gli stanno vicino e che lo invogliano, lo aiutano a farsi conoscere, lo accompagnano. Tra questi cita in particolare don Ciotti, Davide Mattiello di Libera e i meetup di Grillo. Questa parte del racconto è l’unica che un po’ mi solleva, mi dà qualche speranza: persone, singole persone possono fare la differenza: hanno restituito un po’ di vita a quest’uomo e alla sua famiglia, aiutandolo a uscire, a raccontarsi, a sentirsi meno solo, ad avere meno paura.
Adesso Pino Masciari, insieme alla moglie, ha scritto un libro in cui racconta tutto questo. Si intitola “Organizzare il coraggio” (Add Editore). Sovvertendo e parafrasando l’assunto suggerito da Rino Gaetano quando cantava Mio fratello è figlio unico perché non ha mai criticato un film senza prima vederlo, mi arrischio a consigliarlo senza averlo ancora letto. Sulla quarta di copertina c’è scritto: “Ogni persona che viene a conoscenza della mia storia mi allunga la vita di un giorno”.