Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, è uscito dal carcere. L’Alta Corte di Londra gli ha concesso la libertà su cauzione respingendo il ricorso presentato dalla procura svedese contro la decisione dei giudici di primo grado (Leggi l’articolo). “La giustizia non è ancora morta”: questo il primo commento di Julian Assange appena uscito dal tribunale. “E’ magnifico sentire di nuovo l’aria frizzante di Londra”, ha affermato il fondatore di Wikileaks che ha ringraziato tutti coloro che nel mondo hanno avuto fiducia in lui, i suoi avvocati e chi ha concesso le fideiussioni “nonostante le grandi difficoltà e le avversità”. Assange ha ringraziato anche i rappresentanti della stampa e il sistema giudiziario britannico. “Durante il mio periodo di confino in una cella, ho avuto tempo di riflettere sulle condizioni di coloro che nel mondo sono isolati e sono in condizioni più difficili delle mie”, ha spiegato il 39enne australiano. “Queste persone hanno bisogno anche loro delle vostre attenzioni e del vostro sostegno, spero di continuare il mio lavoro e di provare la mia innocenza”, ha aggiunto.
Il 39enne australiano era stato trasferito in aula dal carcere di Wandsworth, dove si trova in isolamento da quando è stato arrestato il 7 dicembre con l’accusa di stupro e molestie (Leggi l’articolo). Tornato libero dopo il pagamento di una cauzione di 200mila sterline più 40mila in fideiussioni (la difesa ha fatto sapere che i soldi ci sono), Assange avrà un domicilio coatto con obbligo di firma e dovrà portare un braccialetto elettronico per essere sempre localizzabile. La prossima udienza per l’estrazione in Svezia è fissata per l’11 gennaio, ma il procedimento potrebbe richiedere mesi.
Scoprire se Julian Assange ebbe un ruolo attivo nell’operazione di duplicazione e invio all’esterno dei cablogrammi diplomatici per cui è stato arrestato l’analista dell’intelligence militare Usa, Bradley Manning (Leggi l’articolo). Questo l’obiettivo del Dipartimento di Giustizia statunitense, che punta a incriminare per concorso nella sottrazione di documenti riservati il fondatore di Wikileaks, in vista di una possibile richiesta di estradizione. A riferirlo è il New York Times, secondo cui dimostrare un ruolo attivo di Assange nella sottrazione dei documenti comporterebbe una svolta nella guerra che Washington sta conducendo contro l’hacker australiano. I giudici americani, infatti, potrebbero incriminarlo per concorso in un reato molto più grave della semplice divulgazione di file riservati, bypassando così la solida protezione che il Primo emendamento assicura in materia di libertà di stampa ed evitando, inoltre, l’imbarazzo di dover spiegare perché altrettanta attenzione giudiziaria non viene riservata agli altri media che hanno pubblicato i cablogrammi.
Da quando Assange ha cominciato a diffondere documenti segreti americani, gli esperti del Dipartimento di giustizia Usa le hanno studiate davvero tutte per incastrarlo, chiamando in causa l’Espionage Act del 1917 e il Computer Fraud and Abuse Act del 1986. Ma tutti i tentativi si sono infranti davanti al muro accordato dalla Costituzione al diritto di cronaca. Ecco perché le attenzioni degli inquirenti si sono concentrate ora su una chat in cui Manning affermerebbe di aver comunicato direttamente con Assange – attraverso un servizio di internet conferencing criptato – proprio mentre rubava i files segreti. E sosterrebbe anche di aver ricevuto dall’australiano un accesso diretto ad un server specifico per caricare i documenti direttamente sul sito di Wikileaks. L’analista avrebbe scritto di questo contatti con Assange in un instant messaging avuto con un ex hacker, Adrian Lamo. Ma di questa presunta conversazione telematica per ora non si conosce alcun dettaglio poiche’ l’Fbi ha sequestrato l’hard drive di Lamo. Intanto anche il sito di Assange ha assunto le sue precauzioni: “Wikileaks accetta una vasta gamma di materiali ma non li sollecita”, questa la scritta che campeggia ultimamente sul sito più cliccato della storia del giornalismo.
Intanto, Wikileaks continua a diffondere nuovi documenti. Da una comunicazione riservata dell’ambasciata Usa a Baku è emerso che diciotto mesi prima dell’incidente che provocò la marea nera nel Golfo del Messico, c’era stata un’esplosione su un’altra piattaforma della Bp, in Azerbaigian. Il grave incidente è segnalato in un cablogramma del 26 settembre firmato dall’ambasciatore, Anne Derse: “Il 17 settembre l’acqua intorno alla piattaforma Central Azeri, una delle più importanti dell’Azerbaigian, ha iniziato a ribollire, e i sistemi di allarme hanno rilevato alti livelli di gas”. Ne è seguita un’esplosione con fuoriuscita di “acqua, fango e gas” e sono stati evacuati i 211 lavoratori della piattaforma. Dai cablogrammi emerge che i rapporti tra Bp e il governo azero si fecero molto tesi dopo l’incidente. Nel gennaio 2009 ci fu un incontro in cui i vertici locali della Bp rassicurarono l’incaricato d’affari dell’ambasciata Usa, Don Lu, che la produzione sulla Central Azeri sarebbe ripartita dopo la chiusura di alcuni “pozzi sospetti da cui si pensa che fosse originata la fuga di gas a causa di una crepa nel cemento del rivestimento”. Il commento del diplomatico fu di sollievo: “E’ una buona notizia, perché vuol dire che c’é da lavorare solo sui pozzi, fatto preferibile rispetto alla perdita della piattaforma”. Una frase che ora rischia di riaccendere la polemica negli Usa, dove l’amministrazione Obama ha appena annunciato di aver sporto denuncia contro la Bp e la compagnia assicurativa Lloyds in merito al disastro ambientale causato dall’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon, dopo l’esplosione del 20 aprile. Rivelazioni anche su Fidel Castro: l’emorragia intestinale che quattro anni fa stava per uccidere il lider maximo avvenne durante un viaggio aereo senza medici a bordo, imprevisto che costrinse il pilota a un atterraggio di emergenza.
(ER)