Ci sono due fenomeni che dovrebbero richiamare l’attenzione dei governi, ben più di quanto non avvenga con il terrorismo. Uno di questi è comune a molti Paesi in Europa, mentre l’altro si manifesta in particolar modo in Italia. Mi riferisco al fenomeno del riciclaggio di capitali frutto di attività criminali, che sta coinvolgendo, pur con l’imbarazzo ad ammetterlo di fronte alle rispettive opinioni pubbliche, diversi Paesi del nord Europa, e a quello dell’evasione fiscale, tipicamente nostrana e di qualche altro Paese del sud Europa. Entrambi i fenomeni hanno in comune l’effetto di distorcere il mercato e la corretta competizione economica, contribuendo così a mettere in difficoltà, fino a farlo uscire dal mercato, l’operatore legale. L’impresa cattiva, come la cattiva moneta, caccia via quella buona per analoga osservazione della teoria di Gresham.
La libera concorrenza è uno dei capisaldi dell’Unione Europea: per questo la lotta al riciclaggio dovrebbe prevedere una più efficace cooperazione tra gli Stati perché nessuno di essi potrebbe avere un lungimirante interesse a consentirlo, né all’interno, né al di fuori dei propri confini. Nella particolare situazione italiana, poi, questa lotta potrebbe rappresentare un’inaspettata opportunità finanziaria. L’ipoteca sulla nostra economia, rappresentata dal debito pubblico e dai vincoli di stabilità finanziaria che potrebbero esserci imposti dai mercati, potrebbe essere liberata dall’aggressione di tali patrimoni così come dall’emersione di redditi imponibili. Quali altri mezzi avremmo oggi se non tagli alla spesa e nuove tasse per favorire un necessario risanamento finanziario? Non sarebbe politicamente più spendibile presentare solo ad una minoranza sociale il conto di tale gravoso risanamento? Le stime sui proventi annui delle attività criminali, ovvero delle mancate imposte derivanti dall’evasione fiscale, sono nell’ordine, rispettivamente, dei 100 e dei 150 miliardi, mentre potrebbe in parallelo crescere, dagli attuali 70 e più miliardi, la spesa per i soli interessi sul debito pubblico in caso di crisi finanziaria. La spesa per interessi, per dimensione, rappresenta la principale voce del bilancio statale.
All’indomani dell’unità d’Italia di cui festeggiamo il centocinquantesimo anniversario, i piemontesi colsero, nell’opportunità di risolvere un problema di modernità, una risorsa per finanziare i costi dell’unificazione e della dotazione di infrastrutture del nuovo Stato unitario: aggredirono i patrimoni ecclesiastici che non pagavano tasse e non andavano in successione. E parliamo di patrimoni comunque legali e benemeriti per l’attività di assistenza sociale che offrivano e la cui confisca poteva fornire un pretesto per un intervento di una potenza straniera in soccorso della Chiesa. I piemontesi ebbero dunque un indubbio coraggio politico.
Ma in un’economia senza frontiere e con movimenti finanziari telematici come si possono contrastare oggi, efficacemente, l’accumulazione di tali patrimoni criminali e di tali risparmi di imposte che, ovunque celati nel mondo, mantengono sempre un legame con un beneficiario effettivo residente? Un suggerimento ci può venire dalla cronaca di questi anni. Quando il governo del Kuwait volle recuperare il bottino che Saddam Hussein aveva trafugato in “paradisi” ovvero celato dietro prestanome di sua fiducia, si affidò con successo ad una nota multinazionale statunitense di investigazioni. Analoga sorte toccò pure alle fortune dei coniugi Marcos, a quelle di Duvalier così come di altri dittatori o criminali di tutto il mondo. Se il criminale si avvale di colletti bianchi per proteggere il proprio patrimonio, è molto improbabile che lo si possa aggredire prescindendo dall’ausilio di colletti bianchi. Bisogna semmai avvalersi, con sano pragmatismo anglosassone, dei migliori sulla piazza, evitando di lasciarli a vantaggio dell’avversario. Del resto, è un’attività che si autofinanzia, come ben sa l’amministrazione fiscale Usa che remunera profumatamente chi collabora a stanare gli evasori.
La stessa zona grigia dell’attività bancaria internazionale deve essere incentivata a lavorare per la legalità: è solo questione di fee, di commissioni.
Una rigida visione pubblicistica e burocratica, funzionale sinora solo ad assicurare impunità ai furbi e ai criminali, ci impedisce di avvalerci, in queste azioni di contrasto, di intelligenze esterne alla pubblica amministrazione: altrove, più pragmaticamente, si ingaggiano persino i contractor nei teatri di guerra perché politicamente più accettabile che mettere a rischio la vita di soldati volontari o di leva.
C’è allora da augurarsi, nell’attuale drammatica crisi finanziaria, che il bisogno sproni l’ingegno del nostro legislatore.