Chi si occupa di comunicazione per mestiere sa bene che le parole sono lo strumento più potente di cui disponga l’umanità. Le parole sono pietre. Quindi gli appelli a “smorzare i toni” e tutta la retorica del bon ton del centrodestra celano uno sporco trucco: quello di confondere il “tono di comunicazione” con il contenuto. Io posso dire delle cose terribili col sorriso sulla bocca, oppure dire delle cose sacrosante con tono arrabbiato, ma quello che conta è sempre e soltanto quello che dico. Arrivare ad attribuire più importanza al tono con cui lo dico è solo mistificazione ipocrita. A maggior ragione se questi appelli alla buona educazione e ai modi garbati provengono da fascisti, ovvero da chi fa parte da sempre di una cultura della prevaricazione e dell’annientamento dell’avversario politico.
È con queste tattiche che tutti coloro che in un dibattito si oppongono agli argomenti della destra vengono bollati come “estremisti”, “comunisti” (ma che vorrà dire ormai questa parola?), “populisti” o “giustizialisti”. Ci vorrebbe un saggio per analizzare ciascuna di queste parole e dimostrare l’uso improprio che ne viene fatto. Quello che mi sta più a cuore invece è un altro argomento: a forza di modificare il senso delle parole siamo riusciti a far perdere loro ogni significato, ogni valore. Oggi le parole sono diventate dei pezzetti di pongo con cui ciascuno modella il significato che gli fa più comodo di volta in volta. Invece le parole sono pietre, sono sculture modellate dal tempo e dalla collettività. Quindi non sono soggette a mutare così facilmente il proprio significato perché il significato è proprietà di tutti. È questo ciò che garantisce la loro stabilità e il loro valore nel tempo.
La sinistra oggi, dopo mille mediazioni e riformulazioni dei propri comportamenti, è incapace di rappresentare nelle parole e nei fatti un pensiero progressista. Il risultato è che abbiamo un polo conservatore (che si estende da Fini a Casini) e perfino un polo fascista (sì avete letto bene, fascista, perché le cose vanno chiamate con il loro nome), che è quello che ruota intorno a Berlusconi. Ma non abbiamo un polo progressista, abbiamo il Pd. La sinistra non è più produttrice di senso perché si è adeguata al bon ton lessicale imperante, si è adeguata alle parole altrui. Quindi ha perso la sua identità. E per questo in Italia è rimasta solo la destra.
Non nascondiamoci dietro a delle parole (vuote): la sinistra ha permesso che i nostri stessi ideali fossero espropriati. I giovani che arrivano alle manifestazioni senza aver fatto un lavoro politico (è un’abitudine che viene anche dal nuovo ordinamento: arrivano agli esami senza aver studiato), si trovano a ripetere vecchi rituali della sinistra degli anni ’70 che non sono serviti a nulla e non hanno più senso. E continuano a farlo i sindacati e tutti i residuati bellici di un’epoca che non c’è più per l’enorme vuoto ideologico che ha lasciato. Che ne è stato di quegli ideali? Che ne è stato soprattutto del metodo con cui si sarebbero dovuti tradurre in pratica? Senza una traduzione in prassi, le parole perdono senso.
Negli anni ’70 si usava dire che “borghese equivale a fascista”. La semplificazione faceva storcere il naso agli storici ma era corretta. Invece si controbatteva animatamente dai moderati di allora dicendo che un conto è essere fascisti e distribuire manganellate e olio di ricino e un conto è essere dei borghesi che possono essere conservatori sì, ma con la violenza non hanno nulla a che fare. È qui la mistificazione. Perché senza l’appoggio della borghesia il fascismo, quello storico, non sarebbe riuscito ad arrivare al potere. Il fascismo ha sempre fatto gli interessi delle classi ricche. Perché ha sempre avuto il culto del più forte, e i più forti sono sempre stati i ricchi. Non esistono eroi poveri nel fascismo e non esiste alcuna ideologia “sociale”: i fascisti non vanno a fare volontariato, non fanno opere di bene, piuttosto preferiscono parlare di “combattere” e di “eroismo” anche quando non ce n’è alcun bisogno.
Di fronte a questa retorica, il povero dà fastidio perché è un diverso, un inferiore, se non un ostacolo all’ascesa dei forti che sentono di appartenere a una razza superiore. È facile sentirsi superiori quando si dispone di più soldi e si appartiene alla classe egemone, quella che in Italia arriva al potere senza alcun eroismo e senza aver “combattuto”, ma per raccomandazione e corruzione politica. E grazie al marketing e alla pubblicità, l’ideale di vita fascista diviene un modello aspirazionale anche per le classi più umili, che mirano ad un riscatto sociale e, perché no, ad una vita migliore e più facile come quella di Berlusconi. Pasolini l’aveva già visto. Il Pci di allora, la cui ottusità si è tramandata nel Pd di oggi, si ostinava a non vederlo, così come il Pd non riesce a comprendere sociologicamente il berlusconismo. E in tutto questo vuoto ideologico ha la viltà di adeguarsi a un perbenismo lessicale che impedisce di chiamare le cose con il loro nome. Allora prendiamo atto che il Pd è finito. Il Pd va sciolto. E va rifondato non il comunismo (perché ormai nessuno sa più che cosa sia) ma un vero partito progressista o laburista italiano.
Non c’è tempo da perdere, il colpo di stato è già avvenuto. Hanno espropriato il significato delle parole e hanno il controllo di quasi tutti il mezzi di comunicazione. Non c’è più bisogno di manganello (tranne in rarissimi casi), quando si dispone di tutti i mezzi di comunicazione basta soltanto il bon ton come manganello. Ma rifletteteci: l’opposizione viene invitata regolarmente a “non alzare i toni” e a non dire parole violente mentre Emilio Fede davanti a milioni di telespettatori si permette di dire che “questi studenti andrebbero picchiati”? Per una cosa del genere all’epoca mia veniva giù la piazza. Se oggi non accade è solo perché le parole sono state private del loro significato dagli ipocriti e dai buonisti. In questo collabora anche la Chiesa quando cerca di giustificare un “orcodio” detto pubblicamente dal presidente del Consiglio e lo “decontestualizza” per convenienza politica. No, non è più possibile continuare a subire questo furto di significato. Riprendiamoci le parole. Le parole ci appartengono.
Ma se cerchiamo nuovi strumenti per il lavoro che occorre fare, voglio ricordare che negli anni ’70 si usava un’altra parola oggi esorcizzata dai buonisti: “nemico politico”. Abbiamo paura di usarla? No, non si può sostituire con “avversario politico” perché non è un sinonimo e poi dopo le sedute in Parlamento non ci si può ritrovare a cena con chi si comporta realmente da nemico. Curioso che questa parola sia stata esorcizzata proprio da coloro che temono di essere definiti tali, all’interno della sinistra, ad esempio i deboli buonisti alla Veltroni. Quale sarebbe lo scopo di una strategia del genere? È semplice. Se scoprissi che Veltroni è il mio nemico politico non potrei più votarlo anche se sono di sinistra. Allora cosa fanno i buonisti? Cancellano la parola, la demonizzano (come Berlusconi ha demonizzato la parola “comunismo”) e quindi la parola non c’è più. Così ci siamo ritrovati a votare per gente come Veltroni e molti altri senza nemmeno capire perché. Perché manca la parola che ci consenta di discriminare, di mettere ogni cosa al suo posto. Manca un’etichetta e questo barattolo di politica avariata non sappiamo più in quale scaffale metterlo. E alla fine ce lo teniamo.
Dunque rompiamolo questo tabù e ripristiniamo quella parola. È mio nemico politico chiunque si appropri delle mie parole e cambi il loro significato. È mio nemico politico chi dice una cosa e poi ne fa un’altra. È mio nemico politico chi carpisce la mia buona fede usando parole che appartengono alla mia vita. È mio nemico politico chi usa le mie parole senza chiedermi prima il permesso. È mio nemico politico chi agisce per conto mio interpretando le mie parole senza assicurarsi di fare ciò che io intendevo con quelle parole. Ritiriamo la delega del senso: la democrazia non appartiene ai fascisti, così come la parola fede non appartiene al Vaticano. Riprendiamoci le parole e usiamole noi nel modo corretto. Perché soltanto noi possiamo dar loro un significato. In questo senso sono a favore di una guerra civile. Questa è la più civile di tutte.