Si è spento Enzo Bearzot. Il più amato e popolare allenatore che la Nazionale di calcio italiana abbia mai avuto insieme a Vittorio Pozzo (c.t. “mondiale” nel 34 e 38 morto, per uno strano caso della storia, anche lui un 21 dicembre, questo del 1968). Friulano di Ajello, classe 27, uomo non taciturno ma consapevole che le parole e i sorrisi siano denari che van spesi con dovuta proprietà, Bearzot aveva esordito come calciatore nella Pro Gorizia per poi emigrare ventenne a Milano, città che non avrebbe mai abbandonato e che, una volta smesso di allenare, amava girare in bicicletta da solo, tra via Washington e piazza Piemonte, oppure frequentarne i bar, come il caffè di via Oriani, dove, amatissimo, s’intratteneva a parlare di calcio e politica, sempre sottovoce come era nella sua indole. Dall’Inter “primo amore” era stato mandato a Catania, quindi vi era tornato per poi finire la carriera al Torino. Là aveva incontrato quel Nereo Rocco discepolo di Pozzo capace di insegnargli l’arte delle marcature asfissianti e delle fasce arrembanti ed assassine: in altre parole i segreti della scuola italiana. Vincendo il mundial spagnolo “in contropiede”, di quella scuola Bearzot sarebbe diventato uno dei maestri più importanti della storia. E una delle figure più care del Novecento italiano.
Il “vecio”, come era soprannominato, aveva assunto la guida della nazionale dopo l’infausto mondiale di Germania nel 74, quando la generazione dei Rivera e dei Riva si era oramai estinta e servivano nuove leve da far crescere e da accudire come un padre. Formerà un gruppo granitico, cui crederà fino alla fine e a dispetto di tutti. Rimane leggendario il suo rapporto conflittuale con la stampa, sintomatico di un Paese abile a gettare fango sull’uomo al comando per poi fargli statue e peana una volta che questo è arrivato da solo sulla vetta del mondo. Ai mondiali del 1978 fu accusato di aver stancato, schierandola, la rosa titolare nella inutile partita contro l’Argentina vinta 1 a 0. Pochi giorni dopo, al contrario, di aver sostituito, per farlo riposare, Causio sull’ 1 a 0 di Italia Olanda, la semifinale poi persa rocambolescamente due a uno. Ma peggio accadde due anni dopo durante gli Europei organizzati nel Belpaese. Solo due gol in quattro partite e il calcio italiano, nonché Bearzot, vennero messi all’indice. Catenacciaro, gli dissero. Avrebbero dovuto rimangiarsi tutto.
Perché Bearzot stava formando un gruppo che sarebbe passato alla leggenda. Uomini votati al modulo e alla corsa, dotati di talento, giovani ma già con esperienza, come Cabrini, Tardelli e tutto il blocco Juve, come Antognoni e il giovanissimo, ma già “Zio”, Bergomi, come l’imprendibile Conti e il vecchio Zoff (che Bearzot considerava come un terzo figlio). Insomma, una squadra perfetta, che però tutti, dopo l’inguardabile girone eliminatorio, consideravano una banda di schiappe di cui il Brasile delle stelle avrebbe fatto un sol boccone. Ebbene accadde proprio il contrario. Perché Bearzot, invece di ascoltare la stampa (come avrebbero fatto altri allenatori dopo di lui), puntò tutto sugli uomini che aveva formato e che meglio conosceva. Non convocò il capocannoniere del campionato Pruzzo beccandosi gli insulti da tutta Roma; lasciò a casa il talento di Beccalossi beccandosi un manrovescio da una fan incattivita. Resistette alla colata di fango che gli venne addosso dopo i tre pareggi di Vigo, alle critiche per aver fatto giocare Paolo Rossi, il quale, graziato dopo lo scandalo scommesse del 1980, visibilmente non stava in piedi. Introdusse il silenzio stampa e mandò come portavoce il laconico Zoff, il quale dovette difendere la squadra anche da assurde accuse di pederastia. Sembravano un’Armata Brancaleone sull’orlo della disfatta. Sarebbero stati ricordati per sempre.
Non è un caso, quindi, che di Bearzot tutti oggi serbino un ricordo felice. E che, apprendendo della sua scomparsa, si fermino per qualche secondo a ricordare. Ricordare lui è ricordare noi, come eravamo e come, nelle notti davvero magiche del Mundial spagnolo, gioimmo tutti assieme nonostante il solito scandalo, quello del Banco Ambrosiano, stesse dilaniando il Paese. Fu come una doccia liberatrice, ma anche la fine di un’epoca e di un mondo che non sarebbe mai più tornato. Per questo tutti quelli che allora erano in vita hanno perfettamente in mente, quasi giorno per giorno, la settimana che dal Sarrià di Barcellona ci portò a Madrid, i sei gol di Rossi, il miracolo di Zoff all’ultimo minuto contro il Brasile, il rigore fallito da Cabrini in finale, il «Campioni del mondo!» ripetuto tre volte da Martellini e le piazze piene di gente festante; tutti ricordano la pipa di Bearzot, il suo “va-va-va” sussurrato a denti stretti mentre i suoi uomini, recuperata palla, ripartivano a razzo facendo fuori una dopo l’altra tutte le teste di serie del torneo, l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico e Falcao, la Polonia di Boniek e la Germania di Rummenigge. E tutti ricordano il grido di Tardelli per il secondo gol della finale e quella azione all’arma bianca, in cui la catenacciara Italia di Bearzot portava nell’area avversaria Scirea e Bergomi, a fraseggiare prima che il povero Gaetano, facendo l’assist vincente, permettesse a Tardelli di diventare il Munch italiano. Ricordano le ammucchiate selvagge in campo con sopra Pablito, la felicità di Pertini e la partita a scopa sull’aereo presidenziale, quando Bearzot e Causio batterono la coppia Pertini Zoff facendo imbestialire il presidente.
Ma soprattutto ricordano un uomo che aveva formato degli uomini prima che dei giocatori, “un Don Chisciotte solo contro tutti” come ha detto Antonio Cabrini, uno che, senza particolari vanaglorie personali, semplicemente non amava apparire e parlare. Perché si può passare alla storia anche sussurrando. Addio Vecio. E grazie di cuore per averci fatto amare il gioco del calcio.
di Matteo Lunardini