Mille modi per non dire precario. Un po’ per imbarazzo, e anche per vergogna, nessuno vuol far parte di una categoria dal nome un po’ triste: così si scopre che la società, mai come ora, è piena di “consulenti”, “liberi professionisti”, “artisti”, “pensatori” ma anche “musicisti”. Occupazioni di cui non è ben identificabile il guadagno, ma che salvano l’apparenza. C’è un esercito di ‘liberti’, tutti dai trent’anni in su, che di fronte alla frustrazione di una condizione lavorativa sempre in bilico cerca di difendersi con orgoglio. Non sia mai considerarli emarginati dal mondo del lavoro. Sono loro che liberi dalla schiavitù di orari e obblighi, esprimono se stessi. Poco importa se a fine mese non entra nulla, l’importante è autodefinirsi. Tutto è meglio rispetto al definiirsi precari. In fondo, esclusi. E se tutti i giorni, statistiche e numeri dicono che sono tantissimi, sempre di più, in un certo senso è come se non si incontrassero mai. Celati da mille occupazioni dietro cui proteggersi.
“Consulente”, è l’attività svolta da Simone Vavalà, 32 anni. “Consulente di progettazione”, precisa, improvvisando una più corretta definizione. In particolare Simone si occupa di “progetti di impianti di sicurezza”. Un ruolo interessante: senza una sede, senza vincoli, per cui non è richiesto alcun obbligo di presenza. E a guardare bene, pure i clienti spesso scarseggiano. “Al momento una società” chiarisce il 32enne. Alle spalle ha una laurea in architettura ed è proprio quando gli si chiede se sia contento di non fare più l’architetto che all’inizio risponde “molto”. Poi con tono drasticamente più sincero ammette: “in questo momento il lavoro a Milano è concentrato tutto sull’Expo, e tra i soliti nomi noti, non c’è spazio”. E’ così che è nata la sua qualifica di consulente. La stessa dietro cui si ripara un suo amico ingegnere ambientale a cui pochi giorni fa è scaduto il contratto. Attribuitosi da poco la nomina, al momento lui non annovera ancora alcun cliente.
Ma tra i ‘liberti’ non ci sono solo neo specialisti, si possono trovare professioni anche più creative. Luca Colombo, 33 anni, per esempio fa il “musicista”. Un’attività che ha fatto anche mettere nero su bianco sulla carta d’identità, in occasione dell’ultimo rinnovo. “Scrivo delle musiche, suono la chitarra e organizzo le serate del mio gruppo rock” dice Luca. Non si può non restare affascinati da una professione che trasforma la propria passione in lavoro. Nello stesso tempo non pensare però a quanto possa essere difficile viverci. E a dirla tutta, lo è: “in fondo – continua – non è una cosa che uno fa per soldi, il massimo che si può guadagnare al ritorno di una trasferta è di non aver avuto spese. Tornare a casa senza essersi pagati il viaggio, il vitto e l’alloggio”. Infatti fare musica era il suo hobby quando lavorava come informatico, più precisamente sviluppatore di software. Un hobby che è diventato la sua “occupazione” dopo la fine del contratto con una società di consulenza. Il cambiamento, in questo caso lo ha portato a tutt’altra carica.
Ma non è sempre così. C’è infatti chi al ruolo che si è guadagnato con i primi contratti si affeziona a tal punto da non volerlo abbandonare più. Anche quando il lavoro finisce. Francesca Boccadoro per esempio, classe 1974, fa la “redattrice”. “Redattrice e stylist” si corregge, indecisa tra quale scegliere. Perché in passato ha fatto entrambe. Fino a quando una volta diventata mamma di una bambina, tre anni fa, tutto è sparito. Da allora è cominciata l’attività a singhiozzo. Con grandi intervalli tra un ingaggio e l’altro. Se oggi dovesse davvero definirlo, il suo lavoro sarebbe: “restare a disposizione di una grande casa editrice” afferma. Meglio dire “redattrice”. E’ più corto e più semplice.
Tutt’altro che semplice è invece la vita della 33enne Nicoletta Galli che in barba al periodo di crisi, di lavori, ne ha addirittura due. Infatti è “fotografa e avvocato”. Due professioni che potrebbero apparire incompatibili, in termini di tempo, l’una con l’altra. Ma non lo sono affatto, se si fanno entrambe da precaria. Una condizione che non le concede nemmeno il lusso di poter definire quale tra le due possa essere se non ‘più’, ‘almeno’ redditizia.
Ma non è finita qui. C’è anche Cecilia che dopo essersi occupata per un certo periodo di marketing e eventi, adesso che non lo fa più è “pr”. La definizione “corretta” sarebbe pr free lance. Oppure Paolo, di recente diventato imprenditore. E si potrebbe continuare a lungo. I precari sono anche questo. Singole personalità che non fanno riferimento ad alcun sindacato. Anche perché non sarebbe così semplice inquadrare una così vasta gamma di professioni tante quelle che si trovano a doversi inventare una volta perso il lavoro.
Difficile anche pensare che possano formare un fronte unico, visto che, superati i trent’anni, spesso fanno di tutto per non farsi riconoscere. Forse perché, proprio a trent’anni, è troppo umiliante oltre a non riuscire a pagarsi l’affitto, non avere neanche una professione con cui presentarsi. Allora di fronte allo sconfortante panorama lavorativo meglio darsi da soli, se pur creativa, almeno l’etichetta di un ruolo. “E’ naturale – spiega il professor Gustavo Pietropolli Charmet, docente di psicologia dinamica all’Università Bicocca di Milano – il lavoro è la rappresentazione sociale del proprio valore. La sua mancanza è vissuta come una perdita di valore e crea una ferita narcisistica importante che viene rivendicata con orgoglio nelle grandi manifestazioni, ma nel privato va mediata. E’ quindi umano che, senza mentire, si utilizzino degli espedienti comunicativi magari facendo riferimento ad un’attività che anche se saltuaria possa mettere in evidenza le proprie reali capacità”. Quelle che i precari sono obbligati a esprimere solo ogni tanto, spesso in cambio di poco o niente. “Il problema vero – continua Charmet – non è tanto la sicurezza del posto fisso. Non sono così certo che tanti ragazzi lo preferirebbero rispetto per esempio ad una maggiore libertà. La vera necessità per un individuo è ‘vendere’ il proprio tempo. Il problema è non avere un corrispettivo economico, il riconoscimento del suo valore”. La soluzione potrebbe partire proprio da qui. Garantire che il lavoro, almeno nella migliore delle ipotesi in cui, benché saltuario ci sia, abbia sempre un riconoscimento economico. Creare le condizioni perché si possa ‘vendere’ il proprio tempo, non svenderlo. Piuttosto che tentare di allontanare invano lo spettro del precariato, ormai protagonista dei tempi. Tanto che anche i figli di Charmet sono precari. “Liberi professionisti precari”, conferma.
di Cristina Manara